"I campi di lavoro forzati non sono poi cosi' male. Ce ne hanno fatto visitare uno al corso di addestramento di base. Ci sono le docce, e letti con i materassi, e attività ricreative come la pallavolo. Attività artistiche. Si possono coltivare hobby come l'artigianato, ha presente? Per esempio, fare candele. A mano. E i familiari possono mandare pacchi, e una volta al mese loro o gli amici possono venire a trovarla - Aggiunse: - E si può professare la propria fede nella propria chiesa preferita.
Jason disse, sardonico: - La mia chiesa preferita è il mondo libero, all'aperto." (Philip K. Dick)

giovedì 21 gennaio 2021

Un punto di vista antispecista sulle capre appartenute ad Agitu Ideo Gudeta


 

da Global Project

Pubblichiamo di seguito un testo scritto da una compagna del centro sociale Bruno di Trento che, attraverso gli strumenti di lettura dell'antispecismo, pone una riflessione in merito alle capre appartenute ad Agitu Ideo Gudeta. Questo testo vuole portare un punto di vista diverso e contemporaneamente stimolare un dibattito sui temi dinnanzi ai quali ci pone l'antispecismo.

 

Nell’Italia sessista e razzista dei giorni nostri, dove una donna in quanto donna viene uccisa con metodica regolarità una volta ogni tre giorni, e dove le morti nel Mediterraneo dellə disperatə in fuga da guerra e povertà nemmeno vengono più conteggiate, capita talvolta che un particolare fatto di cronaca riesca in breve tempo a tracimare dalla stampa locale e a scalare la classifica delle notizie tanto da diventare virale su tutti i mezzi di comunicazione, travalicando anche i confini nazionali. Che si tratti di razzismo o di sessismo poco importa, ci sono sempre “vittime ideali”, quelle della cui morte violenta i media si impegnano a raccontare ogni dettaglio, con inquietante dovizia di particolari e sulle quali l’opinione pubblica del “bar sport-Italia” ha sempre qualcosa da commentare.

L’orrendo femminicidio di cui è stata vittima Agitu Ideo Gudeta è diventato nel giro di poche ore uno di questi casi, e così stampa, TV e in particolare certi bassifondi dei social network si sono sperticati in ogni genere di sproloqui e narrazioni tossiche a 360 gradi. Da un lato le più becere narrazioni razziste dove, una volta identificato il responsabile, non si è esitato a esprimersi rispetto all’omicida nei termini di “bestia ghanese” o a gongolare del fatto che quello che in un primo momento si sospettava essere un delitto di matrice razziale era invece una storia di “africani che si ammazzano tra loro”. Dall’altro una narrazione più sottilmente razzista, ovvero quella dell’elogio a reti unificate della memoria del deserving migrant[1] in opposizione alla condanna unanime dell'(altro)immigrato - da subito identificato come “clandestino” - evidentemente colpevole di non essere riuscito “ad integrarsi” quel tanto che basta ad allontanarsi dagli “incivili usi e costumi” tipici del suo continente di origine. 

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