"I campi di lavoro forzati non sono poi cosi' male. Ce ne hanno fatto visitare uno al corso di addestramento di base. Ci sono le docce, e letti con i materassi, e attività ricreative come la pallavolo. Attività artistiche. Si possono coltivare hobby come l'artigianato, ha presente? Per esempio, fare candele. A mano. E i familiari possono mandare pacchi, e una volta al mese loro o gli amici possono venire a trovarla - Aggiunse: - E si può professare la propria fede nella propria chiesa preferita.
Jason disse, sardonico: - La mia chiesa preferita è il mondo libero, all'aperto." (Philip K. Dick)

giovedì 22 maggio 2014

L'ingiustizia del "cibo giusto": Serge Latouche e la decrescita "felice" fra salami e prosciutti



L'INGIUSTIZIA DEL "CIBO GIUSTO"


Proprio nello stesso periodo in cui è in atto la Settimana Mondiale per l’Abolizione della Carne, Serge Latouche, teorico della decrescita, sarà a Pisa per un incontro dal titolo “Il cibo giusto”.

Noi non sappiamo quello che dirà Latouche, sappiamo solo che, al termine, ci sarà un aperitivo a filiera corta con vari prodotti tra cui ricotta, prosciutti, salami, coppe…

“Il cibo giusto”. E’ proprio il titolo di questo incontro che colpisce, che punta il dito sulla questione basilare e nello stesso tempo, con plateale indifferenza, la ignora, la mortifica, la annichilisce.
Sì! Perché la questione del cibo è proprio legata alla giustizia. Prendere qualcuno e renderlo cibo, renderlo prodotto, renderlo merce significa dimenticare il proprio simile animale, significa relegarlo a qualcosa che posso usare, sfruttare, manipolare e gestire come una risorsa, come un attrezzo, come un bene. Significa anche e soprattutto ignorare (o fingere di ignorare!) che ad essere usato, imprigionato, gestito, ingrassato e ucciso è un individuo dotato di coscienza, pensieri, sensibilità, intelligenza.

Noi tutti sappiamo che cos’è un’ingiustizia. Forse non tutti riusciamo a definirla in modo corretto e impeccabile, ma per il solo fatto di essere in questa civiltà, sappiamo di cosa si tratta, lo sappiamo per averla subita, per averla vissuta, per averla vista applicare su chi abbiamo intorno. Quando vedi un’ingiustizia ne senti il peso e, un po’, ti ribolle il sangue e vorresti agire, reagire. Questo accade perché sai che anche quella, come tutte le altre ingiustizie, potrà proliferare, potrà sopravvivere ed espandersi proprio grazie alla tua indifferenza. E’ strana l’ingiustizia! Non ammette neutralità. O ti schieri contro o, in automatico, stai favorendo il carnefice, colui che la vuole applicare, colui che se ne sta avvantaggiando.

Lo specismo, quella complessa e millenaria ramificazione di condizionamenti che ci portiamo addosso, consente incredibili scappatoie, permette, ad esempio, di parlare di giustizia, proprio mentre si sta festeggiando sul cadavere di un individuo a cui è stata tolta libertà, un individuo che è stato tenuto rinchiuso, un individuo a cui è stato impedito di vivere secondo le proprie aspettative, la propria indole, il proprio modo di percepire e interpretare la realtà. La giustizia, allora, viene rinchiusa in un rigido compartimento. Il cibo è giusto se è buono e mi fa bene. Il cibo è giusto se è autoprodotto. Il cibo è giusto se non entra al supermercato, se non è confezionato, se ha la filiera corta. Il cibo è giusto finchè l’asse del ragionamento riesce a mantenersi saldo e prepotentemente ancorato all’umana superiorità, ad una visione del mondo in cui chi è diverso è anche situato su un gradino più in basso. Un tempo, su quel gradino più in basso (ma ancora oggi), ci stavano gli schiavi umani. Fornivano lavoro giusto perché tanto erano “quasi umani” e naturalmente destinati ai lavori imposti, erano diversi da noi. Un tempo (ma ancora oggi) ci stavano le donne. Inferiori, usate, sfruttate. E chiaramente l’elenco di chi veniva e viene posto su un gradino più in basso si potrebbe allargare a gay, lesbiche, trans, intersex, rom e a tutte le categorie rese oggetto, feticcio, categorie ridicolizzate perché diverse dallo stereotipo condiviso, diverse da ciò che evade dal modello dominate. Gli esempi sono tanti e ciascuno ha diverse sfumature e caratteristiche, ma quello che conta è l’asse portante, perché in tutti i casi la dinamica che giustifica e fortifica l’ingiustizia è sempre uguale. Il diverso può essere usato, dominato e discriminato. Il diverso è una risorsa che può essere gestita e controllata per i nostri personali interessi.

Lo specismo consente di tenere un comportamento giusto ed etico pur continuando a sfruttare e a discriminare in modo sistematico e consapevole chi è diverso, pur continuando a togliergli la libertà, pur continuando ad impedire all’altro da sé di vivere le proprie speranze, di realizzare le proprie attitudini, i propri desideri. Lo specismo è comodo e, soprattutto, indispensabile a mantenere la status quo. Basta dimenticare chi ha un corpo diverso, basta renderlo oggetto e il gioco è fatto.
Tutto questo, per di più, può avvenire nella più totale buona fede. Guardando solo all’umano, guardando solo al maschile, guardando solo al bianco occidentale si possono ignorare le più elementari norme di tolleranza, si può dimenticare l’etica, si po’ credere di compiere azioni rivoluzionarie, si può essere convinti di lavorare concretamente per il cambiamento di questa società pur continuando a rispettarne e ad incarnarne l’essenza, pur continuando a scandirne la grammatica. In realtà, come appare ovvio, non si sta facendo altro che perpetuarla rafforzandone le regole basilari.

Perché ciò che conta non è cosa si mangia!
E’ curioso, infatti, notare come il cosiddetto veganismo salutista, pur essendo vegan, segue esattamente la stessa dinamica di chi, organizzando un incontro sul cibo giusto, festeggia sulla prigionia, sulla sofferenza e sulla morte di qualcun altro. Ciò che rimane immutato è lo specismo.
Anche nel caso del veganismo salutista, infatti, l’altro da se’ (in questo caso la mucca, il maiale, la gallina…) viene dimenticato, deprivato dal suo essere soggetto di una vita per essere trasformato in oggetto/cibo che, solo per il fatto di far male alla salute, dovrebbe essere evitato. In un caso l’oggetto/cibo deve essere trattato con determinate metodologie per essere cibo giusto, nell’altro, invece, deve essere evitato proprio come si eviterebbe una sostanza tossica. Il risultato cambia, è chiaro, ma l’essenza della società specista, il suo perpetuarsi, il suo inesorabile mantenersi come struttura che domina e dirige le nostre esistenze, non viene scalfito neppure di una virgola. E come ovvia conseguenza, in entrambi i casi, a livello globale, gli umani, gli animali e l’ambiente continueranno ad essere dominati e sfruttati.

Nonostante le intenzioni, nonostante il desiderio di cambiare le cose, si finisce per essere funzionali a ciò che si vorrebbe cambiare.

La cosa più sconcertante di questo paradosso, di questo impegno attivo verso il cambiamento che diviene asservimento alle logiche del dominio, però, è un’altra, ed è legata all’evidenza dei fatti, a quanto sia chiaro e inequivocabile che abbiamo di fronte delle persone non umane, delle popolazioni di persone non umane. Di quanto questo fatto sia stato dimostrato anche da quella stessa scienza che regge e giustifica la nostra società specista. Dopo la Dichiarazione di Cambridge del 2012 sulla coscienza, infatti, è stato sancito ufficialmente che noi umani, insieme a tutti gli altri animali che imprigioniamo, segreghiamo, sfruttiamo, ingrassiamo e uccidiamo, siamo dotati di coscienza, di quella stessa coscienza che ci permette di essere consapevoli, di prendere decisioni. In questo non c’è differenza tra noi e gli altri animali!

In realtà, anche in questo caso, ritroviamo le stesse dinamiche del razzismo del sessismo, dell’omofobia. In passato era pur sempre ovvio e visibile a tutti che le persone con la pelle nera non erano quasi umani, che le donne non erano inferiori, meno intelligenti, senz’anima, senza diritti e naturalmente votate alla sottomissione. Oggi è quantomai evidente che l’omosessualità non è una malattia mentale. Eppure occorreva crederlo, era indispensabile farlo per tenere in piedi le società bastate sullo sfruttamento, le società fondate su un preciso modello patriarcale. Il condizionamento, in realtà non ancora estinto del tutto, era talmente forte che non bastava certo vedere con i propri occhi, che non bastava certo dare ascolto alla propria empatia, al proprio senso razionale. E non sarebbe bastata neppure la dichiarazione di qualche scienziato. C’è voluto e ci vuole di più, molto di più!

Ma tornando al “cibo giusto” si potrebbe anche affermare che non importa, che posso pretendere per me il cibo buono, facile, il cibo che mi dà libertà dal sistema e gusto per il palato anche infischiandomene dell’etica, anche se questo comporta il passar sopra come un bulldozer su tutti i principi di libertà e di giustizia.

Eppure non è così, non è questo il caso.
Perchè è sempre una molla etica quella che spinge a desiderare cibo a chilometro zero, che spinge a mangiare sul mater-b invece che sulla plastica, che spinge a porsi contro un sistema che pretende la crescita infinita, che spinge a lottare contro le nocività. Ma, nello stesso tempo, se questa molla etica non allarga i suoi orizzonti, se non mira più in alto, se non prende in considerazione la radice che determina lo sfruttamento e il dominio sarà sempre destinata a fallire, sarà sempre destinata a perpetuare lo sfruttamento e la devastazione, i disastri ecologici e le ingiustizie. Nessuna società libera, ecologica, etica, infatti, potrà mai nascere o rinascere fondandosi sulla prigionia, sulla sofferenza e sullo sfruttamento.


Troglodita Tribe