"I campi di lavoro forzati non sono poi cosi' male. Ce ne hanno fatto visitare uno al corso di addestramento di base. Ci sono le docce, e letti con i materassi, e attività ricreative come la pallavolo. Attività artistiche. Si possono coltivare hobby come l'artigianato, ha presente? Per esempio, fare candele. A mano. E i familiari possono mandare pacchi, e una volta al mese loro o gli amici possono venire a trovarla - Aggiunse: - E si può professare la propria fede nella propria chiesa preferita.
Jason disse, sardonico: - La mia chiesa preferita è il mondo libero, all'aperto." (Philip K. Dick)

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lunedì 13 aprile 2015

Expo 2015 - Nutrire il pianeta, riempire i macelli

Fonte: www.liberazioni.org

Expo 2015 - Nutrire il pianeta, riempire i macelli
di M. Reggio



Expo 2015 si avvicina. Con il suo slogan, «Nutrire il pianeta, energia per la vita», il Primo maggio (data non casuale) avrà inizio a Milano l’Esposizione Universale che costituirà «il più grande evento mai realizzato sull’alimentazione e la nutrizione»[1]. Come è noto, questa iniziativa costituisce per il capitalismo un momento importantissimo di rilancio, autocelebrazione, promozione e diffusione del proprio ordine simbolico, ma anche di pubblicizzazione di merci, settori produttivi, tecnologie e servizi. La corsa verso questo appuntamento – che si è rivelata una corsa a ostacoli fra le insidie della cor ruzione politica e finanziaria e le più oscene e imbarazzanti infiltrazioni mafiose – non può che registrare lo sviluppo di una critica e di un’opposizione a partire dal territorio interessato. Expo ha un carattere ideologico e concretamente devastante sulle vite delle persone. Da quando il capoluogo lombardo è diventato ufficialmente sede dell’esposizione (marzo 2008), associazioni, gruppi e comitati, che hanno intrapreso un lavoro di smascheramento e controinformazione su questo evento, si sono riuniti sotto la sigla No Expo, che ha organizzato diverse iniziative di approfondimento e di protesta.

martedì 27 gennaio 2015

Intervento Liberati Da Expo alla nazionale NoExpo

da: http://antispefa.noblogs.org/intervento-liberati-da-expo-alla-nazionale-noexpo/

Riproponiamo il testo di Liberati da Expo letto Sabato 17 Gennaio durante l’assemblea nazionale NoExpo. Un primo documento da cui partire, certamente incompleto a causa del poco tempo a disposizione, ma un tentativo  di portare, all’interno della lotta NOEXPO e oltre, le due questioni che più premono “Liberati da Expo”, cioè quella animale e quella dei generi.
Per fermarci non bastano università sprangate e piene di sbirri.
Con ogni mezzo possibile, finchè ogni gabbia non sarà vuota!!


Ciao,
siamo delle individualità antispeciste e lgbtqueer che si stanno affiancando ai movimenti di lotta contro Expo2015. Il primo momento di piazza in cui ci siamo espressi è stato al corteo dello scorso ottobre, con lo spezzone Liberati Da Expo nell’intento di portare all’interno della lotta NoExpo una visione che comprenda un approccio ecologista e antispecista, con il chiaro obiettivo di una sovversione dell’esistente, intento che vogliamo portare avanti nei prossimi mesi, anche oltre il grande evento.
Nella misura in cui pretendiamo di non essere imprigionati, sfruttati e dominati, non si può continuare a imprigionare, dominare e sfruttare soggetti più deboli o diversi da noi, siano essi umani che non umani.
Tema fondante di Expo2015 è l’alimentazione, tema che non può prescindere dalla liberazione animale e della terra. Allo stesso modo debito, cemento, precarietà, parole d’ordine alla lotta ad Expo2015, non possono prescindere dallo sfruttamento animale. Le prime tre voci non sono più sufficienti a raccontare il reale dentro e intorno a noi perché sono voci di nocività superate dagli eventi. Certo continueremo a usarle e a combattere qualunque sistema le utilizzi e le voglia imporre, ma è tempo di effettuare un salto di qualità che dovrà saper affrontare soprattutto il cuore del grande evento: l’alimentazione. Serve confliggere con Expo2015 perchè evento capitalista di matrice biopolitica che entra direttamente nel nostro piatto e di conseguenza nel nostro corpo e nell’ambiente in cui viviamo. Questo evento specula sul cibo, su chi e cosa è ritenuto cibo, su aspetti naturali come suolo, acqua ed energia, su agricoltura, allevamento e alimentazione come ambiti di una cultura specista e antropocentrica; un evento, aggiungiamo, che trova appoggi sociali e legittimità culturale nel terzo settore di Expo dei Popoli -ospitato a cascina Triulza- e che parallelamente incarna lo spirito neoliberista che ci vuole tutte e tutti assoggettati al mercato delle multinazionali dell’agribusiness, delle nanotecnologie e degli OGM, in una continua e onnipresente lotta al Pianeta e alla vita libera, sia essa umana o non umana.
 La liberazione animale deve integrare le altre lotte per poter sfiancare il dominio, ma deve essere anche fondante per il futuro che cerchiamo di immaginarci, futuro che il grande evento tenta di vendere nascondendosi dietro le parole green o pink, nell’intento di continuare ad avere sostegno nonostante gli anni di crisi economica ed esistenziale per migliaia di esseri umani e famiglie.
Attraverso l’alimentazione si possono fare scelte importanti per gli animali umani e non umani, non mangiare nulla di derivazione animale risparmierebbe loro rabbia, dolore e morte, concretizzerebbe il rispetto dell’altro, del suo spazio, tempo e socialità, li riscatterebbe portando al collasso l’intero disfunzionante sistema capitalista.
Solo in occidente 54 miliardi di animali, senza contare pesci e molluschi, ogni anno vengono massacrati, creando, inoltre, un concentramento di CO2 nell’atmosfera, tale da rendere impossibile un proseguo di tutta la vita sul pianeta.
 Liberare chi è incatenato a questa produzione è uno degli obiettivi. Alimentarsi è una pratica che determina importanti cambiamenti rivoluzionari.
 Ford nel 1913 creò la catena di montaggio osservando il lavoro di smembramento, dissezione e stoccaggio in un macello, questo sistema ha prodotto nel tempo lo sfruttamento umano (tanto da essere stato modello anche per i campi di concentramento nazisti) e la trasformazione da soggetti attivi a consumatori passivi.  Lo smontaggio dei corpi in quel macello è padre dell’attuale precarietà, le nostre vite quotidiane sono state determinate proprio dalla riduzione in pezzi degli animali. Le catene che legano quelle vite sono le stesse che ci legano a questo sistema, sistema che può essere distrutto solo spezzandole.  Se tutto questo resterà ancora sullo sfondo, sullo sfondo rimarremo anche noi tutti e tutte.
Da qui a un futuro che andrà oltre Expo2015, dobbiamo proporre come desiderabile e concreta una prospettiva di libertà e di convivenza non mercificata, non antropocentrica né specista. Una prospettiva che può iniziare ora dalle scelte alimentari adottate da chi partecipa a questo incontro e che ha come potentissima conseguenza l’abbraccio di una cultura e di una socialità di autogestione, di libertà e di mutuo aiuto. Una orizzontalità e un riconoscimento di dignità che implicano l’abbandono di ogni sfruttamento, fosse quello verso l’ambiente, quello tra esseri umani e quello che culturalmente si applica da secoli verso gli animali non umani.
 Per questo crediamo e proponiamo che il cuore della lotta anticapitalista che portiamo avanti trovi il suo focus sul tema ufficiale di Expo e sulla società che vogliamo in futuro fare nostra, che necessariamente dovrà essere antispecista e radicalmente ecologista.

mercoledì 16 luglio 2014

Speciale di Radio Black Out su EXPO 2015 e sfruttamento animale

Expo 2015: nessuna faccia buona, pulita e giusta

Tre interventi su Radio Black Out su EXPO 2015, all'interno della trasmissione "Liberation Front".
I primi due con attivist* del collettivo "Farro & Fuoco", che ha curato il dossier su EXPO e gli animali che trovate qui.
Il terzo con un attivista di BioViolenza, sempre sui temi documentati e discussi nel dossier.

Gli interventi possono essere ascoltati sulla pagina dedicata.


Difficile pensar diversamente, nonostante tutti i tentativi che vanno dalle recenti azioni di ricerca di “trasparenza”, smascherando e riciclando l’imprenditore/faccendiere/politico di turno, alle varie e raccapriccianti operazioni di “greenwashing” delle diverse multinazionali che saranno in vetrina a Milano e che vedranno, in contemporanea, Torino a braccetto in qualità di “capitale del cibo sostenibile”. Connubi, a parer nostro, “in-sostenibili”.

Expo 2015: “Nutrire il pianeta, energia per la vita”, un colosso di retorica e ipocrisia; grande evento, ennesima opera inutile e devastante, con il valore aggiunto “green”.

Durante alcune trasmissioni, a cavallo fra giugno e luglio, abbiamo dato spazio a molte letture tratte da un validissimo e importante dossier. Nessuna faccia buona, pulita e giusta a EXPO 2015 – Dossier su Slow Food, Coop Italia e Eataly. Un work-in-progress, curato dal collettivo milanese Farro&Fuoco, che offre un’analisi critica e un’operazione verità che ampliano la già triste prospettiva di cosa rappresenti Expo 2015, attraverso approfondimenti in chiave non solo antropocentrica, su tre fra i principali attori che saranno in scena: Slow Food, Eataly e Coop. Già, una chiave di lettura non solo antropocentrica; una chiave che spesso ci si dimentica.

E riportando alcune parole tratte dall’introduzione al dossier, vi proponiamo qui di seguito tre interessanti chiacchierate fatte in diretta con Paolo, Francesca e Marco.

“Non sarà una fiera del capitale a trovare soluzioni a problemi che lo stesso capitale ha provocato. Questi grandi eventi sono precipitati concreti che la specie umana impone all’ambiente e alla vita che in esso trova forma, in una catena di rapporti di potere che via-via scende fino all’ultimo essere vivente che si trova scacciato dal suo habitat”

venerdì 6 giugno 2014

Nessuna faccia buona, pulita e giusta a EXPO 2015 - il dossier di "Farro & fuoco"

Un dossier su EXPO e sfruttamento animale.

Il testo Nessuna faccia buona, pulita e giusta a EXPO 2015 – Dossier su Slow Food, Coop Italia e Eataly è una critica del grande evento milanese che, concentrandosi sui tre attori che danno sostanza al tema ufficiale, intreccia analisi del discorso pubblico, politica economica e antispecismo. Autore di questo dossier, uscito nel maggio 2014, è il gruppo  “Farro&Fuoco – Alimenta il conflitto.

Il testo analizza in modo critico la retorica del "benessere animale" e della "sostenibilità" di Slow Food, COOP e Eataly, e la loro funzione all'interno dell'organizzazione di EXPO 2015.

Qui è possibile scaricare il dossier: http://boccaccio.noblogs.org/post/2014/05/29/nessuna-faccia-buona-pulita-e-giusta-a-expo-2015/


mercoledì 2 ottobre 2013

Il bastone è la carota

Segnaliamo un articolo pubblicato nel n.14 della rivista Liberazioni (autunno 2013), "Il bastone è la carota", di Alessandra Galbiati.


L’asino e la carota
Si dice che per fare camminare un asino testardo, oltre che il bastone, sia più necessario e utile mettergli davanti una carota. Non sappiamo sequesto espediente abbia un fondamento. Verosimilmente è una delle molte leggende inventate sugli animali per parlare metaforicamente di umani. Probabilmente un asino, dopo aver constatato per qualche minuto che la carota è legata ad un bastone e perennemente irraggiungibile, capirebbe l’inganno e inizierebbe a ignorare la carota.
La carota metaforica di cui vogliamo parlare in questo scritto è il “benessere animale” proposto agli animalisti come possibile passaggio intermedio del percorso che dovrebbe condurre alla fine dello sfruttamento animale. E, a differenza degli asini veri, noi animalisti continuiamo a camminare nell’illusione di riuscire a raggiungere, afferrare e assaporare la dolce carota.
Da qualche tempo ci si imbatte in internet in una petizione di Compassion in World Farming (con supporto di Pigbusiness e Farm not Factories) per raccogliere firme affinché i suini vengano trattati rispettosamente prima di finire al macello. Queste “associazioni” no profit di allevatori “etici”, indignate per alcune investigazioni che hanno messo in luce come i maiali vengono vergognosamente cresciuti negli allevamenti intensivi, denunciano gli abusi e le violenze, lanciano appelli affinché vengano rispettate le normative internazionali sul benessere animale e non si facciano soffrire questi animali intelligenti e sensibili durante la loro, seppur breve, vita. Il tutto condito, come è ovvio, da attenzione per il consumatore e dal motto “poco ma buono”. Anche Slow Food, come prevedibile, supporta Pigbusiness...
 


giovedì 12 settembre 2013

Allevamento ed etica del care

Segnaliamo un articolo pubblicato a luglio 2013 nel numero tematico su donne e animali della rivista DEP - Deportate, esuli e profughe.
Il saggio, consultabile sul sito della rivista, presenta una riflessione critica dell'interpretazione che considera l'allevamento animale indipendente dalle sue finalità capitalistiche e lo dichiara incompatibile con gli atteggiamenti di attenzione e cura per l'”altro” secondo l'approccio di Carol Gilligan.
Il testo affronta criticamente alcuni tentativi di difesa dell'allevamento, ed in particolare l'allevamento "familiare", che utilizzano gli strumenti dell'etica del care di matrice femminista.


Agnese Pignataro, "Allevamento di animali domestici ed etica del care: armonia o conflitto?", in DEP - Deportate, esuli e profughe. Rivista telematica di studi sulla memoria femminile, Università Ca' Foscari di Venezia, n.23, luglio 2013, pp.84-99.

giovedì 4 luglio 2013

"Crimini in tempo di pace", con un capitolo sulla carne felice

E' uscito "Crimini in tempo di pace - la questione animale e l’ideologia del dominio" di M. Filippi e F. Trasatti, con un capitolo sulla "carne felice"

Massimo Filippi - Filippo Trasatti
Crimini in tempo di pace
la questione animale e l’ideologia del dominio
Eleuthera Editrice - 2013
€ 18,00

 Un gatto (o forse una gatta) sta spiccando un balzo per uscire dalla stanza in cui si trova. Questa stanza è il nostro mondo che, sotto la superficie apparentemente confortevole, ragionevole e levigata, nasconde il lato oscuro dell’oppressione e dello sterminio di miliardi di animali e di umani. Lo stesso gatto – insieme a Laika e Foucault, Pietro il Rosso e Derrida, Giu e Deleuze – si aggira furtivo tra queste pagine per aprirci gli occhi sulla follia e l’orrore della normalità (mattatoi,laboratori e campi di sterminio), per farci riconoscere il fondamento vivente delle architetture del dominio, per guidarci nel pericoloso attraversamento di frontiere ritenute invalicabili, e per mostrarci l’insostenibilità della differenza che abbiamo instaurato tra «l’Umano» e «l’Animale». Dopo averci trascinati nel flusso della vita, Angelo – così si chiama l’enigmatico gatto che, con passione, ci ha esposto all’indescrivibile sofferenza di tutti i senza nome – svanirà lentamente, lasciandoci con il suo sorriso sulla soglia da cui è possibile intravvedere la luce della liberazione.




Massimo Filippi, docente di neurologia, si occupa degli aspetti filosofici e politici dell’oppressione animale e ha pubblicato Ai confini dell’umano (2010), I margini dei diritti animali (2011) e Natura infranta (2013).

Filippo Trasatti, docente di filosofia e storia, si occupa di pedagogia libertaria e questione animale e ha pubblicato per Elèuthera Lessico minimo di pedagogia libertaria (2004) e Contro natura (2008).

lunedì 12 novembre 2012

La fattoria (in)felice - animali e contadini


Segnaliamo con piacere una pubblicazione molto interessante, a cura di Troglodita Tribe: "La fattoria (in)felice: animali e contadini".

Per scaricare il libro: Troglodita Tribe



"Uno dei  miti più solidi su cui si regge lo sfruttamento animale è senz’altro quello della Fattoria (in)Felice.

In questo luogo idilliaco che esiste solo nel nostro immaginario truffato e infarcito di luoghi comuni pubblicitari, gli animali vivono un’esistenza naturale, sono rispettati e amati, donano di buon grado i loro prodotti perché, in ultima analisi, loro sono nati per produrre latte, uova, carne, pelle che serviranno agli esseri umani che li accudiscono.

Quest’idea, che potremmo considerare più che altro una sorta di allucinazione specista, è, più o meno, ciò che rende giustificabile e accettabile l’intero castello dello sfruttamento animale. Sì, perché volendo analizzare con attenzione, sono poche le persone che ritengono giusto ed encomiabile il concetto di allevamento intensivo, sono poche le persone che, di fronte alle inequivocabili e raccapriccianti immagini che provengono da queste realtà, non sostengano la necessità di fare in un altro modo. E il mito della Fattoria (in)Felice è studiato proprio per questo. La Fattoria (in)Felice è l’associazione mentale che scatta immediata e pronta quando ci si trova di fronte agli orrori dello sfruttamento animale. La Fattoria (in)Felice è l’ancora di salvezza che permette di estraniarsi dalla violenza e dall’ingiustizia perché, tanto, non è colpa nostra, ma solo dell’avidità di chi produce, solo del metodo sbagliato, solo di un cinico progresso che ha portato all’abbandono della vecchia cultura contadina.

È interessante notare che il mito della Fattoria (in)Felice, in realtà, non è solo uno strumento utilizzato da chi imprigiona, sfrutta e uccide con metodi biologici, biodinamici e simili. Il ritorno alla natura, alla genuinità del prodotto che ci permette l’associazione alla cultura contadina, genuina e rispettosa del mondo animale, è una prerogativa di ogni azienda che guadagna sullo sfruttamento animale.

I metodi utilizzati sono diversi tra loro, ma tutti richiamano, attraverso i marchi, le immagini, le confezioni e le parole, il concetto di Fattoria (in)Felice. Ora, il punto essenziale da comprendere, è che questa fattoria felice a cui tutti fanno riferimento non solo non esiste, ma non è mai esistita neppure nel passato più remoto".

(da: Troglodita Tribe, "La fattoria (in)felice. Animali e contadini")

Progetto BioViolenza
www.bioviolenza.blogspot.it

domenica 4 novembre 2012

Animal welfare: uccidere con gentilezza

Mattatoio

Animal welfare: uccidere con gentilezza
(rielaborazione dell'intervento di BioViolenza alla conferenza sul benessere animale, Salone del Gusto 2012)

Un punto di vista particolare?

Il Progetto BioViolenza è nato due anni fa, con l’intento di affrontare il tema degli allevamenti biologici, ecologicamente sostenibili, attenti allo spreco delle risorse e ai diritti dei lavoratori. Per questo, si può dire che ci interroghiamo da un po’ di tempo sul cosiddetto “benessere animale”, l’oggetto della conferenza di oggi[1]. Abbiamo chiesto quindi a Slow Food, che ha accettato, di venire qui a proporre alcune considerazioni. Il punto di vista da cui affrontiamo tale tema è un punto di vista particolare. O meglio: si tratta di un punto di vista che sembra particolare, ma che dovrebbe essere, secondo noi, quello principale. Dovrebbe essere normale far partire da qui ogni riflessione al riguardo. E’ un punto di vista che in questa conferenza è stato marginale, ma che è affiorato a tratti in più di una relazione. Si tratta del punto di vista degli animali allevati.
Il punto di vista degli animali è centrale anche soltanto per motivi quantitativi: gli animali sono gli attori più numerosi nei processi di produzione alimentare di cui parliamo oggi. Se guardiamo alle cifre, almeno 40 miliardi di non umani all’anno perdono la vita per fornire cibo agli umani. Una stima dei pesci uccisi nel mondo ci restituisce un numero ancora più impressionante[2]. Ma non si tratta solo di quantità, anzi: è il ruolo di questi attori che è centrale, dato che sono loro a fornire una serie di “oggetti” o di prestazioni per produrre cibo. In modo sommario, possiamo dire che forniscono i propri corpi, che diventano carne, e le proprie funzioni riproduttive, da cui traiamo diversi generi di prodotti (principalmente, uova, latte e latticini). E’ sugli animali, non a caso, che ricadono le scelte degli allevatori, dei veterinari, degli etologi, degli economisti, dei legislatori. Per noi, provare a considerare il loro punto di vista significa, da una parte, immedesimarci con loro, chiedendoci che cosa provino, quali siano i loro sentimenti, i loro bisogni, le loro esigenze; e questo è un tipo di sforzo che i presenti, allevatori e specialisti, non faticheranno a comprendere a partire dalla loro esperienza. D’altra parte, ci chiediamo come potrebbero considerare – gli animali non umani – i nostri discorsi sulle pratiche di allevamento, ed in particolare i nostri discorsi sul benessere animale. Questi dibattiti sono, infatti, dibattiti tutti umani, sviluppati fra umani e per umani.

Benessere animale: uno strano tipo di welfare

Il benessere animale può far pensare – anche come parola – al welfare umano. Il nome stesso – animal welfare – lo suggerisce. In particolare, viene in mente in qualche modo il welfare in ambito lavorativo, le questioni relative ai diritti dei lavoratori. Il welfare in questo caso è un’attività di regolamentazione della produzione e un discorso sulle attività produttive che presuppone che lavoratrici e lavoratori non siano semplici “strumenti”, ma individui dotati di esigenze proprie innegabili, esigenze spesso in conflitto con le esigenze produttive. Nonostante tutto, però, questa analogia lascia perplessi, ed il motivo è sostanzialmente uno. A differenza di quello umano, il welfare animale è un dispositivo di regolamentazione del lavoro i cui supposti beneficiari non sono stati consultati. Qualcuno dirà che questo avviene perché non è possibile consultarli, per limiti di specie e, in ultima analisi, di comunicazione. Gli allevatori che sono qui, ma anche gli specialisti che hanno parlato – etologi e veterinari – sanno bene che non è esattamente così, perché esiste la possibilità di ascoltare le loro esigenze, ovviamente. Noi pensiamo che, proprio per questo, la peculiarità del welfare animale derivi da un altro fatto. Il paragone non regge, in realtà, perché qui non si tratta di lavoro, ma di schiavitù. Certamente, una schiavitù intorno alla quale esiste una crescente compassione dell’opinione pubblica verso gli schiavi, ma pur sempre una schiavitù. E in effetti gli schiavi non vengono consultati.

Kill with kindness

Prima dei discorsi sul benessere, esiste comunque una serie di regole e di principi sanciti dalle istituzioni. Vorremmo analizzarle brevemente dalla prospettiva di un animale da allevamento. Parte della normativa sul benessere animale si rivela estranea a questa compassione timida ma crescente. L’agricoltura biologica, in particolare, prevede delle regole di certificazione che incrementano il benessere degli animali, ma – spesso dichiaratamente – per avvantaggiare la salute dei consumatori, la qualità dei prodotti, la sostenibilità ambientale[3]. Il vantaggio per gli animali è quasi sempre un fatto accidentale, una specie di effetto collaterale. Nei pochi casi in cui l’obiettivo dichiarato è la riduzione della sofferenza animale, ciò avviene nella misura in cui non si interferisce con le esigenze dei produttori e dei consumatori.
Diverso è il caso – oggi ampiamente illustrato – della protezione degli animali da reddito da parte di una serie di norme europee e di una serie di progetti locali che tendono ad incrementare il benessere animale a partire dalla considerazione dell’animale come essere senziente. Oggi, infatti, nessuno può più considerarsi a pieno titolo cartesiano: gli animali non sono più macchine, ma soggetti in grado di soffrire e gioire in modo analogo a noi (che, del resto, siamo animali). Per chi intrattiene – la maggioranza dei cittadini – una relazione con un animale “da compagnia”, un cane o un gatto per esempio, questa è ormai una banalità, entrata a tal punto nel vissuto dei membri della società umana che se ne è accorta persino l’Unione Europea. A tal proposito, l’art. 13 del Trattato di Lisbona, poco fa citato da Andrea Gavinelli (Commissione Europea), parla di “senzienti” [4]. E lo stesso relatore ha fatto riferimento alle “cinque libertà”, di cui abbiamo già avuto modo di parlare in passato[5].
La Direttiva 98/58 dice una cosa molto interessante: “nessun animale deve essere custodito in un allevamento se ciò nuoce alla sua salute o al suo benessere”[6]. Ancora, cerchiamo di interpretarla come se fossimo non gli allevatori, bensì gli allevati. Se mi dicessero che non devo essere privato della libertà, rinchiuso in una gabbia o in un recinto qualora nuocesse al mio benessere, penso che avrei le idee chiare al riguardo. Direi che non devo mai essere “custodito” in un allevamento. Essere recluso in un allevamento nuocerebbe sempre al mio benessere, è ovvio. A dirla tutta, mi farei anche qualche domanda su questa parola, “custodito”. “Custodire” richiama l’idea di protezione, di cura. Si tratta di elementi che pur possono esistere nell’allevamento, ma è chiaro che qui si intende un altro tipo di custodia, che a me ricorda piuttosto la pratica della custodia carceraria. Forse chiederei di essere un po’ più onesti e chiamarla semplicemente reclusione. Ma sulle vostre parole avrei vari appunti da fare. Poco fa, uno dei relatori[7] ha spiegato che il suo programma di introduzione del benessere animale in un piccolo allevamento brasiliano ha portato ad un calo della mortalità dei bovini da una percentuale (il 60%) ad un’altra (il 30%). Io penso invece che il tasso di mortalità sia costante, sempre intorno al 100%, dato che la fine di noi animali è sempre il macello. E a proposito, consentitemi di tornare sulla frase di cui sopra: “nessun animale deve essere custodito in un allevamento se ciò nuoce alla sua salute o al suo benessere”. Visto che si afferma di non voler nuocere alla mia salute, per non nuocere alla mia salute chiederei di non essere macellato. Non di essere macellato un po’ più tardi, o previo stordimento, o da qualche sostenitore della “morte dolce”[8], ma proprio di non essere mai portato al mattatoio.

Progetto BioViolenza
Al mattatoio sani e felici


[1] Il testo è una rielaborazione dell’intervento fatto dal Progetto BioViolenza al Salone del Gusto / Terra Madre 2012, durante la conferenza su “Benessere animale: una tutela anche per produttori e consumatori” (29 ottobre 2012, Torino)
[2] Le stime dei pesci uccisi sono di circa mille miliardi (http://fishcount.org.uk fornisce un criterio scientifico per il calcolo del numero degli individui pescati, che nei dati ufficiali sono espressi a peso).
[4] “Nella formulazione e nell’attuazione delle politiche dell'Unione nei settori dell’agricoltura, della pesca, dei trasporti, del mercato interno, della ricerca e sviluppo tecnologico e dello spazio, l'Unione e gli Stati membri tengono pienamente conto delle esigenze in materia di benessere degli animali in quanto esseri senzienti” (http://europa.eu/lisbon_treaty/full_text/index_it.htm).
[5] Cfr. “Cinque libertà: tanto rumore per nulla” (http://bioviolenza.blogspot.com/2012/08/cinque-liberta-tanto-rumore-per-nulla.html).
[7] Mateus Paranhos Da Costa, docente di etologia e benessere animale, Università di São Paulo – UNESP.
[8] L’espressione (kill with kindness) si riferisce a quanto sostenuto durante la sua relazione da Richard Haigh, Presidio Slow Food della pecora Zulu. Si noti che la traduzione proposta da Slow Food, “morte dolce”, contiene in sé un’ulteriore slittamente semantico, richiamando per il pubblico italiano il concetto di “eutanasia”.

martedì 9 ottobre 2012

L'autunno in campagna può essere soffocante (fumetto antispecista)

L'autunno in campagna può essere soffocante
di S. Cappellini e M. Reggio

Elaborato per la mostra "Al Ponte dell'Arcobaleno", organizzata dal gruppo Luna Corre, ottobre 2011
  

Per vedere il fumetto in sequenza e/o stamparlo, vai qui >>
Per vedere il filmato su YouTube >>

mercoledì 27 giugno 2012

Suicide Food


Segnaliamo una risorsa molto interessante per la denuncia del fenomeno della cosiddetta "carne felice".

Sul sito Suicide Food (in lingua inglese) è possibile trovare moltissimi esempi di immagini usate dai pubblicitari dell'industria della carne in cui gli animali si "offrono" come cibo.

Come dichiarato dai curatori del sito "Suicide Food è un blog che esplora le assurdità della cultura della carne esaminando immagini di animali che sembrano voler essere mangiati".

suicidefood.blogspot.it





martedì 22 maggio 2012

Volantini

Volantino creato da Oltre la Specie per il progetto BioViolenza:

Scarica il volantino in alta risoluzione: fronte - retro






sabato 2 luglio 2011

Risposta di BioViolenza alla lettera di Susanna Tamaro "Ci trasmettono intimità anche se noi li abbiamo trattati con efferatezza"

Leggi qui la Lettera di S. Tamaro>>

Cara sig.ra Tamaro,

le emozioni che suscita la lettura del suo racconto per il convegno “La coscienza degli animali” (apparso in anteprima sul Corriere della sera di oggi) sono davvero forti e vere.
Anche chi è giovane e vive nel cuore di una grande città ha sicuramente visto nella sua vita qualche camion stipato di condannati a morte. La pianura padana, le grandi strade provinciali, le autostrade, specie nelle ore buie, sono percorse dall’indifferenza assordante dei grossi tir che ritmano il primo e ultimo viaggio di questi dannati.



Chiunque ha intravisto tra le sbarre le grosse narici umide delle mucche, il grugno rassegnato o ribelle dei maiali o le penne e gli occhietti inquieti e curiosi delle galline. Solo chi è cieco nel cuore, morto insieme alla sua umanità, non si è mai soffermato neppure un momento a sprecare un pensiero per quegli schiavi, nati per morire, cresciuti nella noia e nel terrore, ridotti a merce perché a noi umani piace il sapore del loro corpo. E non occorre essere vegetariani per toccare con mano la sofferenza. Non occorre essere particolarmente sensibili per sapere che questa violenza è ignobile perché esercitata su esseri che non si possono neppure rendere conto del perché e del come dell’ingiustizia con cui marchiamo le loro carni e la loro vita. Ma è un tacito accordo: occorre non pensarci, non soffermarsi troppo col pensiero perché altrimenti quei “martiri” (peccato che il martire umano scelga il proprio infelice destino, gli animali no) si trasformano in incubi, in pensiero ossessivo, in una tremenda ingiustizia e iniziano a ingombrare troppo la nostra testa e iniziano a fare pressione, a voler essere presi in troppo seria considerazione. Allora qualcuno diventa vegetariano ma qualcun altro non si accontenta di non mangiare carne e vuole che agli animali venga ridata la dignità per la loro vita rubata. E se questo succede (e grazie al cielo succede e succede sempre più spesso e a sempre più persone) allora gli animali iniziano ad avere dei complici, qualcuno che non sopporta più di vederli schiavi, qualcuno che decide che il loro destino è insopportabile, che la loro vita è tremenda, che la loro vita deve essere riscattata.

Il suo racconto colpisce al cuore e resuscita le emozioni profonde, solitamente sepolte nell’infanzia, della compassione e dell’empatia. Gli animali che tante emozioni ci regalano da bambini, con l’età si trasformano prima in fantasmi e poi in esseri inferiori. Così irrimediabilmente inferiori che, quando siamo cresciuti e abbiamo i soldi per decidere cosa comprare da mangiare, si sono magicamente già trasformati insieme con la nostra cattiva coscienza collettiva, in cibo, oggetti, merce. Di loro ci resta qualche ricordo e magari un “esemplare da compagnia” che ci consola di tutta la brutalità che esercitiamo sugli altri.

Ma la campagna bucolica del vecchio contadino non è la cura per l’incubo.

Non era in quei cortili (così di moda oggi) che si scannava il maiale?

Non era in quelle assolate aie che il nonno appendeva i conigli dopo averli bastonati in testa?

Non era da quelle porticine discrete che la zia chiamava la gallina preferita e la uccideva a tradimento dopo averle dato un’ultima carezza? Non era da quelle stalle odorose e calde che si sentiva la mucca piangere per giorni quando le si portava via il vitellino? Sì, la mucca dei nonni aveva un nome, ma anche ai migliori schiavi veniva dato un nome.

Perché al posto dell’incubo vogliamo sostituire un sogno mediocre?

Perché rinunciare, ancor prima di averci sperato, ad un mondo senza più schiavi?

Perché accontentarsi di rendere più sopportabile la schiavitù, invece che bandirla definitivamente dai nostri pensieri, dai nostri cuori e dalle nostre azioni?

Se vogliamo svegliarci dall’orribile incubo in cui viviamo noi umani e in cui obblighiamo gli animali “addomesticati”, allora iniziamo a immaginare una società liberata in cui nessuno asservisca nessuno, in cui chi nasce abbia diritto a sperare di morire di vecchiaia o di malattia e non assassinato con distaccata premeditazione.

Se possiamo ancora sognare, sogniamo in grande e non accontentiamoci di altrettanto utopistiche vie di mezzo che non possono soddisfare né chi vuole mangiare carne né chi aspetta di essere liberato davvero. La violenza “sostenibile” fatta alla mucca che muccheggia o che vive secondo la propria mucchità lasciamola alle coscienze addomesticate di chi ancora spera di avere la botte piena e il marito (o la moglie) ubriaco. Per noi e gli altri animali vogliamo ben altro.

Progetto BioViolenza


lunedì 27 giugno 2011

Tg1 26/06/2011- GALLINE OVAIOLE, ALLEVAMENTI DISCUSSI

servizio di Roberta Badaloni



R.B. Galline ovaiole in batterie intensive. Sono 400 milioni in Europa. La legge fissa i parametri: attualmente, 5 animali per ogni gabbia, che e' un quadrato con lati di 23,5 cm.; regole su cui animalisti e allevatori si scontrano da sempre.

La parola a Anna Maldini- Presidente Assoavi:
Quando siamo partiti con le galline in batteria,la selezione dei genetisti e' stata fatta per una gallina che poteva benissimo vivere stando anche immobile, diciamo, immobile per modo di dire, perche' si muove, eh, quella gallina!

Roberto Bennati - Vice Presidente della LAV :
Le galline non possono aprire le ali, gli viene mutilato il becco con una lama rovente e soffrono di fragilita' ossea. Sono delle vere e proprie macchine animali.

R.B. File di gabbie al chiuso, fino a sei piani per 2 anni di vita, li troviamo in penombra e per farli rilassare, ci spiegano, c'e' un problema: il cannibalismo,dovuto alla vicinanza, e per questo vengono sbeccate e intanto gia' dal prossimo gennaio scade il termine per adeguarsi alla direttiva europea del '99. Ci vorranno gabbie un po' piu' grandi ma i costi, ci spiegano, sono immensi.

Anna Maldini: La maggior parte degli allevatori togliera' 2-3 galline, per dare piu' spazio alle galline, poi nel tempo ristrutturera' anche gli allevamenti.

R.B. Ma la legge pero' non e' che parla solo di spazi, prevede anche degli accessori...

Anna Maldini: prevede anche degli accessori, giustamente. L'allevatore, con tanti sacrifici, si impegnera' per mettersi in regola con queste nuove leggi...

Roberto Bennati: Dopo 13 anni di condanna da parte dell'Europa, chiediamo che i cittadini non siano ingannati con uova illegali dal gennaio 2012.

R.B. Il sistema intensivo nasceva 50 anni fa': piu' produzione meno costi,con un prezzo non quantificabile: la liberta'... e sono gli animali a pagarli!

Anna Maldini: Fanno le uova tutti i giorni non ci sono problemi sanitari, secondo me,... e' etico

(n.d.a. : abbiamo trascritto il servizio. Non ci sono commenti da aggiungere; i dati e le condizioni di questi poveri esseri viventi si commentano da soli)

lunedì 6 giugno 2011

Tg1 5 giugno '11 - Inchiesta su allevamenti intensivi con OLS: I POLLI

Ecco il secondo servizio che abbiamo realizzato con il TG1.

il 5 giugno al TG1 delle 20.00 è andato in onda un servizio di Roberta Badaloni sugli allevamenti intensivi di polli.

Oltre la specie ha collaborato all’investigazione che potete vedere.

Ricordiamo a tutti coloro che volessero seguire più da vicino le attività di OLS di visitare spesso il sito , il blog e la nostra pagina Facebook


martedì 29 marzo 2011

Antispecismo, allevamento “tradizionale” e auto-produzione

Marco Maurizi

Antispecismo, allevamento “tradizionale” e auto-produzione

Note per un dibattito che non manchi l’essenziale

Così vicini, così lontani

Il fatto che l’antispecismo non trovi di meglio da fare che polemizzare con le posizioni di chi “ama” e “rispetta” la natura pur continuando ad uccidere animali, può sembrare una bizzarria dovuta a quel classico eccesso di estremismo o settarismo che porta a criticare chi ti sta più vicino (l’ambientalismo radicale, gli alfieri del mondo contadino premoderno, i teorici dell’auto-produzione) piuttosto che unire le forze per combattere il vero nemico: il capitalismo globale tecno-finanziario. Ma il problema è che questa “vicinanza” è, probabilmente, illusoria e che non è possibile alcuna forma di convergenza tra posizioni diverse se prima non si è fatta necessaria chiarezza sulla natura di questa diversità. D’altronde, perché una qualsiasi forma di chiarezza possa realizzarsi su questo punto, sarebbe necessario riuscire a discutere nel merito delle rispettive posizioni, cosa che, come potrà testimoniare chiunque abbia assistito a confronti tra gli antispecisti e gli “amanti della natura”, accade di rado, per non dire mai.

Quello che vorrei fare in questo intervento è chiarire alcuni presupposti di questo mancato dialogo, allo scopo di renderlo finalmente possibile. Poiché intervengo come antispecista, è chiaro che tenterò di evidenziare quali sono gli aspetti della posizione antispecista che mi sembrano solitamente offuscati o non adeguatamente presi in considerazione in questo tipo di dibattiti. In secondo luogo, tenterò di chiarire quelli che mi sembrano i principali problemi che, da un punto di vista antispecista, emergono dalle posizioni dell’ambientalismo più radicale.


Riflettere sull’ossessione identitaria


È facile osservare, nelle discussioni che hanno ad oggetto il nostro rapporto con il non-umano, come la discussione degeneri facilmente in una lotta tra “vegani” e “non-vegani”. Si dirà: è inevitabile che accada così, basta solo evitare che il confronto diventi scontro tra identità irriducibili. Sembra inevitabile, infatti, che in ogni discussione in cui si scontrano tesi opposte attorno a cui si polarizzano opinioni e gruppi diversi, si inizi a parlare di “noi” e “voi”, cioè di “identità” fisse e rigide. Ma questo, nel caso specifico della disputa sul nostro rapporto con la natura in generale e con gli animali in particolare, è un fenomeno che andrebbe evitato perché impedisce strutturalmente di cogliere il vero oggetto del dibattito. Non si tratta solo di un problema di comunicazione (cioè di “come” si dicono le cose), ma del fatto che non si riesce a intendersi su ciò di cui si parla (dunque di “cosa” si sta parlando). In altri termini, la discussione non solo non va avanti, ma nemmeno inizia. O meglio, inizia un “dialogo” tra chi parla di A e chi parla di B, mentre entrambi sono convinti di parlare di C.

Anche per questo gli appelli ad andare oltre lo stallo comunicativo sono inefficaci e, in realtà, illusori. Certo, è necessario fare uno sforzo collettivo in questo senso per facilitare la comunicazione, ma le esortazioni a non scadere nella mera contrapposizione tra “noi” e “voi” non potranno avere successo se prima non si coglie la posizione di partenza di queste due tesi che non sono affatto simmetriche. Non ci troviamo, in questo dibattito, di fronte ad un’opposizione tra due identità. Perché soprattutto quelli che a prima vista sembrano possedere un’identità più netta e rigida – i vegani – sono proprio coloro che non dovrebbero mai permettersi di affrontare la discussione in questo modo. E non per “educazione” o per “facilitare” la comunicazione, ma perché non ne hanno il diritto. Per due motivi.

In primo luogo, perché presentandosi come “vegano” l’interlocutore antispecista rischia di far travisare completamente la sua posizione nella discussione. Chi è infatti il “vegano”? È una persona che “non mangia carne” e che spera o intima a terzi di essere come lui, cioè di adeguarsi alla sua identità cioè al suo modo di vivere? No, non è questo e, se fosse questo, avrebbero ragione coloro che gli si oppongono a trovare poco significativa la sua posizione e le sue opinioni. Il veganismo è infatti una pratica e, in quanto tale, non è il punto di partenza, la tesi che andrebbe discussa. È, al limite, il punto di arrivo della vera tesi che si tratta di discutere: ovvero la plausibilità etica e politica della liberazione animale. Il che significa: è possibile, auspicabile o necessario, in termini etici e politici, sottrarre gli animali non umani al giogo del potere umano, allo sfruttamento di cui sono fatti oggetto (meglio: attraverso cui sono resi “oggetti”), al dolore, alla morte? Questa è la domanda che i vegani pongono quando si parla del nostro rapporto con i non-umani. E la pongono non in quanto vegani (cioè portatori di uno stile di vita) ma in quanto antispecisti (cioè sostenitori di una visione etico-politica). Dunque sarebbe meglio che ad oggetto della discussione stesse l’antispecismo e non il veganismo[1].

In secondo luogo, e forse anche più importante, chi critica lo specismo non può dimenticare nemmeno per un momento che il suo compito nella discussione non è semplicemente affermare una tesi, ma fermare la mano che uccide delle vite: chi lotta per la liberazione animale cerca infatti di dare voce alle vittime impotenti di una sottomissione millenaria. Dietro di lui ci sono altre vite che, se potessero scegliere, sicuramente non accetterebbero il proprio destino di morte. Qual è allora “l’identità” dell’antispecista che parla nel dibattito? Quella di un umano o anche quella dei non-umani che egli spera di sottrarre al potere della società del dominio?

Questo non diminuisce la sua responsabilità nella discussione ma, anzi, la moltiplica, nel senso che egli deve mostrarsi responsabile nel far presente questo fatto (cosa di cui, occorre ammetterlo, raramente i vegani sono all’altezza). L’antispecista non deve, cioè, abusare della voce di cui è testimone, ma è importante che riesca a far emergere nella discussione che la sua posizione non è “sua”. Perché solo in questo modo può dire senza peccare di narcisismo morale: prendiamoci le nostre responsabililtà, discutiamo di ciò che siamo e, se possibile, cambiamo. Se questo aspetto non emerge e non viene messo al centro del dibattito allora effettivamente tutto diventa solo uno scontro tra “identità” umane contrapposte che non solo silenzierà, di nuovo, quelle voci animali inascoltate, ma che non potrà che avere gli esiti disastrosi che ben conosciamo. Se i vegani agiscono come portatori di uno “stile di vita” invece che come testimoni di una voce oppressa, mancano tragicamente il bersaglio e contribuiscono a rendere impossibile ogni discussione vera. Perché allora l’interlocutore vedrà in loro solo persone che cercano di affermare il proprio ego e il dolore che gonfia le loro voci apparirà inevitabilmente un urlo di prevaricazione.

D’altro canto, e anche questo va detto, se gli interlocutori dei vegani impostano la discussione ad un livello “immediato”, “pratico”, è inevitabile che si finisca per parlare di “stili di vita”. Se il problema dell’oppressione animale, della sua giustificabilità e necessità, viene affrontato non in sé ma per il modo in cui oggi gli stili di vita incidono sull’ambiente, si è già affossata la discussione. Quando si critica la produzione di soia o di riso per mostrare che anch’essa è violenta, si commette una scorrettezza. Si aggira la domanda sull’oppressione animale (“è giustificata?”) e si sposta automaticamente la discussione sugli “stili di vita” e sui loro “effetti” più o meno violenti. In questo modo, ci si sottrae ad una domanda di diritto con una constatazione di fatto: tu vegano non sei meno violento di me non-vegano. Tutti ugualmente colpevoli, tutti assolti. A parte le riserve che ho su questi “fatti” che vengono sbandierati come certezze assolute – e su cui dirò qualcosa alla fine di questo intervento – mi sembra chiaro che, così facendo, si elude ogni confronto nel merito. Si parla solo di ciò che interessa chi accetta l’oppressione animale (lo “stile di vita”) e non se l’oppressione sia in sé giusta.

Centrare i problemi politici


La questione, per come la vedo, andrebbe impostata in termini politici, cioè parlando del tipo di mondo per cui lottiamo. Quando si lotta contro il capitalismo globalizzato e contro tutte le forme di oppressione disegniamo infatti un mondo che ancora non c’è. Ora, rispetto a questa dinamica di liberazione c’è un problema sia con chi insegue l’ideale contadino tradizionale, sia con chi pratica l’autoproduzione.

1. I limiti della tradizione


In primo luogo, non è affatto chiaro perché il mondo agricolo “pre-moderno” dovrebbe essere considerato un ideale rispetto al mondo tecnologico contemporaneo. Infatti se si prende questo mondo così com’era, allora lo si dovrebbe restaurare con tutte le caratteristiche che esso possedeva (incluso il patriarcato, la gerontocrazia, il razzismo ecc.); senza dimenticare che lo sviluppo “tecnologico” esiste dall’alba dei tempi, dunque non è ben chiaro a quale fase di questo sviluppo bisognerebbe arrestarsi: a livello del 1500, cioè poco prima della modernità? E perché non all’anno 1000 o al neolitico? Chi, e come, stabilisce qual è il modello “ideale” di produzione?

Se poi si dice, come ovviamente si dice, che no, questo modello ci va bene per alcuni aspetti (il rispetto della natura), ma non per altri (la violenza interumana) allora scatta davvero la domanda: perché tutto dovrebbe cambiare tranne che l’uccisione di animali? La storia di ribellione cui facciamo parte è una storia che ha visto mettere in discussione progressivamente lo schiavismo e l’oppressione di genere. Ogni volta si giustificava questa oppressione nei modi più diversi, salvo poi dover ammettere che gli “inferiori” erano tali solo perché la violenza li rendeva tali. Per quale motivo gli animali - che fanno parte di questa storia al pari delle donne, degli schiavi e dei bambini - non dovrebbero vedersi riconosciuto il diritto alla libertà? Perché devono continuare a dipendere dalla nostra volontà e vivere solo per i nostri interessi? È questa la domanda fondamentale che gli antispecisti rivolgono ai loro interlocutori: cosa giustifica questo trattamento degli animali? L’unica risposta possibile, bisogna avere l’onestà di riconscerlo, è: la violenza. Poiché noi possiamo fare questo agli animali, lo facciamo. Non c’è altra giustificazione. È la stessa giustificazione che stava dietro alla violenza esercitata contro gli oppressi umani: possiamo opprimerli e lo facciamo. Tutte le argomentazioni che si possono trovare a posteriori per rendere “giusto” questo rapporto di sfruttamento sono delle razionalizzazioni. L’oppressione e la violenza vengono prima. E non sono cancellate dal trovare un appiglio che le giustifichi.

C’è uno squilibrio di forze in campo e questo rende possibile a noi di vivere sulle spalle degli altri animali. Abbiamo la forza per farlo, siamo la maggioranza a ritenere di volerlo fare, dunque lo facciamo. Se si arrivasse ad ammettere questo saremmo ad un punto del dibattito in cui si potrebbe parlare senza cattiva coscienza e con definitiva chiarezza. Ma allora sarebbe inevitabile anche dire, a chi pensa che uccidere animali sia giustificato perché lo vogliamo e abbiamo la forza per farlo, che chiunque potrebbe a suo piacimento escludere un essere umano dal cerchio della considerazione morale. Basta volerlo e avere la forza per farlo. E non c’è giustificazione “morale” che tenga perché la morale ha escluso esseri umani per millenni dal suo ambito e ha fornito ottime giustificazioni (cioè razionalizzazioni) di ciò. Ma la stessa riflessione morale che ha messo in crisi questi pregiudizi ha anche dimostrato che non esistono “ragioni” morali per escludere gli animali dall’etica. Sono esseri senzienti, comunicano, vivono e interagiscono con noi e tanto più interagiscono con noi quanto più noi li consideriamo degni di attenzione. Allora l’unica giustificazione per escluderli dalla considerazione etica resta la violenza: li escludiamo perché non vogliamo considerarli degni di attenzione morale. E se questa è la giustificazione, allora chiunque può escludere esseri senzienti (anche umani) dall’ambito della morale: basta volerlo e poterlo fare. Credo che questo sia il cuore della critica antispecista alla società tradizionale e mi sembra un punto difficilmente aggirabile.


2. L’auto-produzione e il mondo che non c’è


Per quanto riguarda invece l’auto-produzione, ho l’impressione che anche qui il dibattito sia schiacciato troppo sull’attualità e sullo “stile di vita”. Si afferma: il vostro stile di vita vegan comporta l’uccisione di vite non-umane (e lo sfruttamento di vite umane) che sarebbe in parte evitata da uno stile di vita non cittadino, anche non vegan, purché legato quanto più possibile all’auto-produzione.

Anche in questo caso si scambia la discussione sul veganismo con la discussione sull’antispecismo. È vero, il veganismo è il modo in cui singoli individui cercano di mettere in pratica l’antispecismo qui e ora, cioè in una società specista. Ma l’antispecismo è qualcosa di più di questo: è una visione generale dei rapporti tra umani e tra questi ultimi e le altre specie. È una visione sociale e politica complessiva. Dunque discutere questa visione a partire dall’impatto ambientale che lo stile di vita degli individui vegan comporta è totalmente errato. In tal modo, si confonde infatti la discussione di un ideale etico-politico (cioè, di nuovo, una discussione di diritto e di giustizia) con l’analisi dei presunti effetti che lo stile di vita vegan ha nel mondo attuale (cioè si sposta il discorso sul piano fattuale). Non solo. Oltre all’errore logico di eludere l’argomento che l’antispecista pone ad oggetto della discussione (“è giustificato uccidere animali?”), si aggiunge qui l’errore fattuale di considerare il mondo-com’è-oggi l’orizzonte di ogni possibile organizzazione della vita umana e non-umana. Nessuno tuttavia conosce le potenzialità di un mondo liberato. Ci sono troppe variabili incognite per poter dire quali sono i costi e gli effetti della liberazione animale. Le terre disponibili, la popolazione, per citarne solo due, sono fattori che non si possono calcolare in anticipo.

Il primo fattore non potrà essere preso adeguatamente in considerazione se non si pensa, al tempo stesso, l’espropriazione delle terre occupate dal capitale che è il presupposto di ogni azione di liberazione successiva (sia la sua equa distribuzione tra gli umani che la sua restituzione al resto del vivente). Ma anche la seconda variabile va considerata con attenzione. Non sta scritto da nessuna parte che un’umanità liberata voglia espandersi o anche solo mantenersi a livello attuale e non possa invece volontariamente o automaticamente realizzare una politica demografica inversa. Parliamo di fenomeni che sono lasciati alla decisione libera di un’umanità libera e che viaggiano tra le generazioni e che quindi non ha proprio senso definire in anticipo.

Ma allora, a maggior ragione, i nostri calcoli sull’attualità sono già sballati. Non si può misurare il futuro con i criteri del presente. L’auto-produzione è sicuramente un modello da seguire e ove possibile praticare nell’immediato, ma non può considerarsi (nei modi in cui è praticata ora) il necessario modello cui tutti dovranno in futuro adeguarsi.

C’è anche un terzo fattore che non viene minimamente citato nelle discussioni e che invece considero centrale: il ruolo che la scienza e la tecnica possono svolgere in un mondo liberato. So bene che molti considerano (giustamente) la scienza e la tecnica uno dei fattori distruttivi del mondo moderno. Ma si sorvola troppo spesso sul fatto che ciò è vero soprattutto perché scienza e tecnica lavorano al servizio del profitto e delle classi dominanti. Non è affatto necessario che sia così.[2] Cosa potrebbero fare uomini liberi e uguali che affrontano problemi discutendo razionalmente e senza dover difendere né il proprio interesse personale, nè quello della propria specie ma invece l’interesse di una collettività inter-specifica? Non lo sappiamo. Sappiamo però che oggi una società irrazionale e conflittuale come la nostra è in grado di vincere la forza di gravità e tenere in scacco l’antimateria. Mi riesce difficile credere che una società razionale e fondata sulla mutua solidarietà non possa produrre riso in modo non-violento. Ma potrei sbagliarmi. Quello che mi sembra importante e vorrei ribadire, è che le stesse possibilità tecniche di una società a venire non possono essere calcolate in anticipo e, dunque, andrebbe evitato come argomento di dibattito ogni necessità legata all’attuale condizione tecnica. O meglio, è giusto riconoscere ciò che oggi siamo costretti a fare visti i fattori sopra indicati (disponibilità della terra, popolazione, scienza e tecnica), ma non è lecito proiettare questi fattori nel futuro perché il loro rapporto e il loro peso specifico non sono predeterminabili.

E dunque ciò che deve apparire in primo piano non è tanto quello che oggi possiamo fare, ma quello che oggi vogliamo fare e che forse potremmo fare domani. E la domanda ritorna ad essere quella di prima: in un tale mondo si continuerà a voler dominare e uccidere altri esseri senzienti? Oppure parliamo di un mondo in cui questa volontà non c’è più e in cui si tenterà perciò, quanto più possibile, di avvicinarci a questo ideale di non-violenza e di rispetto dell’altro?

Cosa significa dire “non sono antispecista”?

Per concludere, sarebbe necessario allora intendersi su qual è il vero argomento di cui si dibatte quando si parla di natura. È lecito e necessario (pur con tutti i limiti indicati) parlare di “impatto ambientale” e dei limiti del sistema attuale che rendono (oggi) inevitabile una certa violenza che esercitiamo sul resto del vivente. Nessun vegan potrà fare a meno di considerare il proprio ruolo all’interno di una società complessa e accontentarsi delle proprie scelte individuali, lavandosi così la coscienza, dimenticando che si tratta in primo luogo di cambiare questa società.

Ma è altrettanto necessario, e aggiungerei, doveroso, per chi critica questo atteggiamento, considerare veramente e nel merito l’istanza etica e politica che l’antispecismo porta avanti. Tale istanza chiede la liberazione animale come conseguenza di un percorso storico che ha portato al riconoscimento progressivo del diritto alla libertà e all’autonomia di altri-da-noi (etnie, donne, bambini). Se coloro che si oppongono all’antispecismo condividono, come accade, questo percorso nel suo insieme, devono spiegare perché intendono interromperlo proprio quando esso, introducendo le voci di altri altri-da-noi (gli animali non umani), inizia a mettere in discussione il loro “stile di vita”. Finché non verrà mostrata una motivazione morale che possa rendere giusta questa presa di posizione – e finora non ne è stata prodotta nessuna: si sono sempre portati avanti argomenti fattuali (l’impatto ambientale ecc.) – gli antispecisti avranno tutto il diritto di interpretare questa ostinazione come difesa di un privilegio.

Questo rende le posizioni nella discussione asimmetriche. Nemmeno per gli “antispecisti” si può dire – come abbiamo detto all’inizio dei vegani – che sono un gruppo a difesa di se stesso, che si arrocca dietro un’identità: essi non hanno privilegi da proteggere. Vogliono solo che la voce delle vittime animali venga ascoltata. Possono sbagliare, anzi sicuramente lo fanno, soprattutto quando dimenticano questa loro natura di testimoni di una sofferenza altrui e si chiudono nella comoda difesa di un’etichetta e di uno stile di vita. Ma ciò non autorizza i loro interlocutori ad approfittarne e a cambiare discorso quando il discorso si fa fastidioso perché li richiama alle loro responsabilità etiche e politiche. Perché chi dichiara di “essere antispecista”, se è persona coerente e informata, dichiara la propria appartenenza ad un mondo che non c’è. Dichiara di essere disposto a fare tutto il possibile perché quel mondo si realizzi, perché la giustizia e la libertà abbiano la massima diffusione possibile. Chi invece dichiara di “non essere antispecista” non sta dicendo nulla, perché nessuno può fino in fondo essere antispecista in un mondo come il nostro che vive, di fatto, sullo sfruttamento degli umani e dei non-umani. Si può però volerlo fino in fondo, cioè voler agire fin da ora perché un mondo senza dominio si realizzi. Chi dichiara di “non essere antispecista” sta invece solo dicendo che non vuole esserlo[3], anzi che nemmeno vuole voler esserlo.. Chi dice “non sono antispecista” pensa di fare una constatazione di fatto (come dire: “non sono vegano”, “non faccio le cose che fai tu” ecc.) ma in realtà sta facendo una dichiarazione di intenti: sta dicendo “io non voglio essere antispecista”, cioè “non intendo fare tutto il possibile perché la libertà e la giustizia valgano per quanti più esseri viventi possibili”. Sta insomma chiudendo la sfera del possibile con una sua decisione.

Nessuno contesta la legittimità di questa decisione. Ma essa andrebbe esplicitata e non nascosta dietro razionalizzazioni a posteriori. Gli interlocutori degli antispecisti dovrebbero cioè avere il coraggio di ammettere ciò che non vogliono e dovrebbero poi chiedersi perché la libertà che sono disposti ad accordare ad altri esseri coincida curiosamente con i confini del proprio privilegio. Perché allora gli antispecisti potranno sempre pensare che quella che appare una decisione “libera” sia in realtà condizionata da un semplice ed egoistico interesse. E a pensar male, come diceva qualcuno, si fa peccato ma quasi sempre ci si azzecca.



[1] Ad ogni modo, anche sull’identità dell’antispecista dirò qualcosa verso la fine di questo intervento, perché anch’essa può dare adito a interpretazioni errate

[2] Non è qui ovviamente il caso di aprire la questione enorme della scienza e della tecnica. È chiaro, però, che se si accetta in parte l’evoluzione della scienza e della tecnica (come tutti i sostenitori delle fattorie “tradizionali” e dell’auto-produzione fanno), non si può negare il loro possibile sviluppo futuro. Altrimenti si cade in una posizione “primitivista” che nega, a mio modo di vedere in modo generico e affrettato, che si possa criticare scienza e tecnica in nome di una razionalità più ampia, una razionalità non alienata ma “erotizzata” nel senso di Herbert Marcuse. D’altronde, il nostro rapporto con l’ambiente e le altre specie è da sempre mediato dalla tecnologia (l’industria litica ci precede addirittura nell’evoluzione): la tecnica è parte della natura umana, non è qualcosa che le si sovrapponga dall’esterno e, dunque, al pari dei modi di produzione tradizionali, anche qui qualcuno dovrebbe spiegare quando è che lo sviluppo tecnologico dovrebbe arrestarsi per essere considerato “ottimale”. Al neolitico? Al paleolitico? E a quale delle tante e diverse “fasi” del paleolitico?

[3] Ringrazio Marco Reggio per questa osservazione.