Le seguenti domande e risposte sono state
pubblicate sul sito Vegolosi.it in un'intervista a cura di Laura Di
Cintio, insieme alle risposte di due associazioni animaliste (è possibile
leggere queste ultime consultando l'intervista completa qui)
1. Cosa pensate degli allevamenti intensivi?
Degli allevamenti intensivi pensiamo, grosso
modo, che sono dei lager, nel senso di luoghi di concentrazione di grandi
quantità di corpi. Luoghi in cui questi corpi vengono fatti riprodurre forzatamente,
ingrassati e fatti a pezzi unicamente in funzione del profitto di pochi. Luoghi
in cui mucche, polli, maiali, conigli, pesci sono sottoposti a torture
insopportabili, in cui resistono in mille modi (fuggendo, ribellandosi,
rifiutando il cibo, ammalandosi, mutilandosi), ma trovano un ambiente
strutturato appositamente per rendere vani i loro tentativi.
Va detto che, nell’affermare quanto sopra, non
siamo certo molto originali: tutte le realtà antispeciste contestano gli
allevamenti intensivi, e ottengono facilmente una certa visibilità mediatica.
Le associazioni di stampo welfarista / protezionista hanno anch’esse una
posizione, in genere, piuttosto chiara in merito. L’opinione pubblica è,
probabilmente, in maggioranza contraria agli allevamenti intensivi, almeno a
livello di principio. Non solo vegetarian* e vegan contestano tali modalità di
produzione: moltissime persone che mangiano carne sono indignate per le
condizioni di questi animali, pur non rifiutando in generale l’idea che sia
lecito ucciderli o sfruttarli per produrre cibo ad uso umano, o pur non
avendo affrontato la questione.
2. Cosa pensate degli allevamenti estensivi/bio?
Esistono una serie di sistemi di produzione di
carne e derivati che potremmo chiamare, per comodità, “allevamenti non
intensivi”. Rientrano in questo calderone tipologie anche piuttosto diverse:
grandi allevamenti con spazi maggiori degli intensivi, pascolo, ecc.;
produzioni biologiche certificate; piccoli allevamenti a conduzione familiare;
e altri ancora. Ciò che le differenzia dall’intensivo è talvolta un più alto
standard di salubrità o qualità della carne (meno antibiotici, meno ormoni,
meno farmaci in generale, miglior foraggio), talvolta una maggior attenzione al
benessere animale, talvolta una particolare attenzione all’impatto ambientale,
più spesso la compresenza di questi elementi. In generale, però, tali
produzioni sono percepite come pratiche che implicano una certa considerazione
del benessere
animale e una generica sostenibilità (termine che evoca in modo
spesso confuso tutti gli aspetti menzionati sopra).
Secondo noi, la diffusione – e, soprattutto, la
sovraesposizione discorsiva – di queste tipologie di allevamenti costituisce
una risposta dell’industria della carne all’indignazione pubblica, o
anche solo alla possibilità che la gente sviluppi dei “problemi di coscienza”.
Nessun complotto, sia chiaro: anche se in alcuni casi i big del settore creano
a tavolino progetti di propaganda dell’allevamento “buono”, in linea di massima
la retorica dell’allevamento sostenibile fa presa in modo spontaneo. In realtà,
solo raramente l’insistenza sull’immagine della fattoria biologica o sul recupero
delle “tradizioni contadine” spinge davvero a consumare prodotti provenienti da
tali ambiti: perlopiù incoraggia il consumatore a proseguire a cuor leggero
nell’acquisto dei “classici” articoli del supermercato. La retorica della
“sostenibilità”, in sostanza, legittima gli allevamenti intensivi:
“consumatore, puoi stare tranquillo e continuare a comprare, perché, vedi,
esistono molti luoghi in cui gli animali vengono trattati bene”.
Ma gli animali sono “trattati bene”, negli
allevamenti non intensivi? È difficile generalizzare, data l’eterogeneità del
fenomeno. Tuttavia, occorre ricordare un fatto banale: gli animali “da reddito”
vengono, presto o tardi, mandati al macello. Possono vivere in gabbie più
larghe, più a lungo, talvolta possono interagire con i loro simili, ma è al
mattatoio che sono destinati. E – dato che in ogni caso costituiscono una fonte
di profitto – non vi arriveranno certo “nella vecchiaia”, come spesso ci danno
ad intendere i supporter dell’allevamento sostenibile. Alcune di queste
migliorie possono certo essere significative per i singoli animali, nel senso
che, pur nella schiavitù, possono significare concretamente una vita un po’ più
sopportabile, ma si tratta in fondo di diversi gradi di sfruttamento. Spesso
poi queste migliorie restano sulla carta, come nel caso degli allevamenti “a
terra”, in cui troviamo le gabbie a terra o migliaia di polli o tacchini
ammassati in capannoni privi di luce naturale. In altri casi, allevamento “non
intensivo” significa “non industrializzato”, “non meccanizzato”, o semplicemente
“di piccole dimensioni”. La mancanza di tecnologie di gestione dei corpi
tecnologicamente avanzate e standardizzate non implica però necessariamente che
non si manifesti la violenza umana: anzi, spesso riemergono le forme di
violenze tipiche della tanto decantata “vecchia
fattoria”, in cui il rapporto diretto fra allevatore e allevato, descritto
come idilliaco dai produttori di carne, significava catene, percosse, incuria.
Senza contare che esiste un intero settore, quello degli animali marini, in cui
di benessere praticamente non si parla, poiché l’opinione pubblica non
è sensibile alla sofferenza dei pesci. In questo settore si parla perlopiù
di attenzione allo spreco (cioè a non esaurire le “risorse”), all’inquinamento
o alla biodiversità. Questa precisazione rivela un punto interessante: le
misure per il benessere animale non sono mai davvero un obiettivo in sè e per
sè, ma costituiscono una sorta di effetto collaterale dei veri obiettivi delle
proposte di migliorie legislative, che sono l’ottimizzazione della produzione,
la tutela di specifici prodotti “di qualità”, la salute del consumatore umano,
e così via. In sintesi, dunque, gli allevamenti “estensivi” sono soltanto
l’altra faccia di quelli intensivi.
3. Si può parlare di "carne etica"?
La carne etica, come la “carne felice”, è per noi
un ossimoro, ovviamente. Se escludiamo alcuni casi marginali, che sono più
esperimenti mentali che altro (come il rinvenimento di cadaveri di animali
morti di morte naturale), e se escludiamo la caccia e pesca di sussistenza (un
fenomeno inesistente nei paesi industrializzati), è evidente che rinchiudere e
uccidere un animale per mangiarlo o mangiare i prodotti delle sue attività
riproduttive è ingiustificabile, per il semplice fatto che oggi se ne può fare
a meno. Carne e derivati animali, come è ormai noto, non sono necessari per
vivere in buona salute. Dunque, checché ne dica il mondo della zootecnia
(esiste per es. un progetto
che si chiama proprio “allevamento etico”, nonché progetti per
l’allevamento “responsabile”), produrre carne non può essere mai accettabile, a
nessuna condizione, neppure se gli schiavi vengono trattati un po’ meglio. Del
resto, il paragone, molto calzante, con la schiavitù, lo mostra in modo chiaro:
saremmo dispost* a reintrodurre ufficialmente lo schiavismo, a patto che le sue
manifestazioni più intollerabili fossero bandite? A condizione, per esempio,
che gli schiavi avessero diritto a tre pasti al giorno e fossero vietate le
frustate?
Ancora più subdolo è poi il concetto di “carne
felice”. Spesso allevatori e macellai propongono immagini di animali felici di
finire in padella o di darci il latte. Questa iconografia, che spesso sconfina
in un’oscena ridicolizzazione della vittima, è la manifestazione più plateale
(e, di frequente, sessista e misogina) di una narrazione strisciante, secondo
cui le mucche sono contente di farsi mungere, gli animali in generale ci sono
grati perchè diamo loro cibo e riparo, e in fondo lo sfruttamento è una brutta
parola che getta un’ombra su quello che sarebbe un patto fra pari (io ti do da
mangiare e una serie di cure, tu mi dai una serie di prodotti e, alla fine, il
tuo stesso corpo). L’animale, che è comunque già considerato
carne-che-cammina, è felice. Stiamo insomma parlando di quello che la
pensatrice ecovegfemminista Carol Adams ha chiamato “referente assente”, ciò
che permette di nominare la carne come cibo invisibilizzando il corpo da cui
proviene, l’individuo che un tempo era vivo e dotato di propri desideri. Ma,
anche se l’animale della fattoria è dipinto come un attore che fornisce
liberamente il proprio consenso e si dà gioiosamente al suo padrone, nessuna
persona in buona fede e provvista di un minimo di senso critico potrebbe pensare
che un essere senziente, umano o non umano, possa essere felice di venire
macellato.
4. Raggiungere la liberazione animale a piccoli passi: auspicabile o assolutamente inutile?
Per “piccoli passi” si possono intendere tante
cose. Alcuni “progressi” possono costituire effettivamente un sollievo per gli
sfruttati, e possono dare loro la possibilità di una vita un po’ meno
indegna. Altri sono francamente una presa in giro. In ogni caso, però, non
crediamo che sia il compito di un movimento per la liberazione animale – pur
nella sua eterogeneità teorica e pratica – quello di proporre e promuovere tali
piccoli passi, come le varie forme di “allargamento delle gabbie” o il rispetto
delle caratteristiche etologiche (qualsiasi cosa ciò significhi...) dei prigionieri
dell’industria zootecnica. La nostra richiesta non può che essere “gabbie vuote”,
e non “gabbie più larghe”, “libertà” e non “arricchimento ambientale della
cella”. Questo non significa che le istituzioni, di fronte alle varie forme di
pressione e di critica che la liberazione animale è in grado di produrre, non
possano rispondere facendo delle piccole concessioni su questo piano. Non sta
però a noi formularne i contenuti, né collaborare alla loro implementazione,
né, soprattutto, adoperarci per dare
“bollini” alle aziende “virtuose”, come fa per esempio Compassion
in World Farming. Il plauso degli animalisti, infatti, è proprio ciò a cui
ambiscono gli sfruttatori più attenti al cosiddetto “benessere animale”,
ed è spesso decisivo per potersi ripulire l’immagine presso l’opinione pubblica
e proseguire indisturbati nelle proprie attività. Al contrario, crediamo che le
loro narrazioni debbano essere smontate pezzo per pezzo, incalzandoli proprio
sulla non ammissibilità degli allevamenti e dei mattatoi. Alcun* attivist*
ritengono poi che la diffusione di allevamenti in cui gli animali hanno qualche
spazio di vita in più possa essere “educativo” per i consumatori, che
imparerebbero così a vedere negli animali degli individui con propri sentimenti
e desideri (cosa più difficile da cogliere nei grandi allevamenti intensivi in
cui gli animali sembrano a tutti gli effetti macchine da carne). Dissentiamo da
questa visione: al contrario, temiamo che l’effetto sia proprio quello di una normalizzazione
del rapporto di sopraffazione. Basti pensare alla diffusione delle fattorie didattiche,
in cui i/le bambin* imparano fin dalla più tenera età che gli animali sono al
nostro servizio, che possono essere violati nella loro intimità, guardati senza
il loro consenso – il tutto al riparo dalla realtà materiale sottostante che
impressionerebbe le persone troppo piccole, e cioè la macellazione.
5. La scelta vegana o vegetariana è un punto di partenza per porre fine allo sfruttamento animale?
All’interno del nostro collettivo esistono
ovviamente opinioni differenti sul valore del vegetarismo/veganismo, e
su quale utilità possa avere per la liberazione animale. In ogni caso, siamo
d’accordo che non debba essere inteso come uno stile di vita individuale (uno stile
di consumo), ma come la conseguenza di una precisa posizione politica,
quella di chi vorrebbe abolire, superare o distruggere gli allevamenti. In
questo senso, ci concentriamo su questa lotta, quella per contrastare la
schiavitù animale, intensiva o “dolce” che sia, e non sulla coerenza
individuale di chi la sostiene. Anche per quanto riguarda la critica agli
allevamenti “sostenibili”, il nostro interesse non è quello di convincere uno a
uno i singoli consumatori che anche la carne del piccolo contadino o del gruppo
di acquisto dovrebbe essere esclusa dalla sua “lista della spesa”. Ci preme
semmai smontare queste retoriche nel discorso pubblico, aprire un dibattito
sulla violenza delle produzioni “alternative”, della “vecchia fattoria”, dei
vari Slow
Food, EXPO e delle
burocrazie del “benessere animale”. Non ci rivolgiamo dunque, come fa una parte
del movimento animalista / vegan, alle persone in quanto consumatori, ma in
quanto attori sociali, membri di una società antropocentrica. Pensiamo che le
persone siano in grado di esprimere dissenso rispetto allo sfruttamento animale
in modo ben più radicale che con la semplice adozione di un “consumo critico”
in salsa animalista.