Marco Maurizi
Antispecismo, allevamento “tradizionale” e auto-produzione
Note per un dibattito che non manchi l’essenziale
Così vicini, così lontani
Il fatto che l’antispecismo non trovi di meglio da fare che polemizzare con le posizioni di chi “ama” e “rispetta” la natura pur continuando ad uccidere animali, può sembrare una bizzarria dovuta a quel classico eccesso di estremismo o settarismo che porta a criticare chi ti sta più vicino (l’ambientalismo radicale, gli alfieri del mondo contadino premoderno, i teorici dell’auto-produzione) piuttosto che unire le forze per combattere il vero nemico: il capitalismo globale tecno-finanziario. Ma il problema è che questa “vicinanza” è, probabilmente, illusoria e che non è possibile alcuna forma di convergenza tra posizioni diverse se prima non si è fatta necessaria chiarezza sulla natura di questa diversità. D’altronde, perché una qualsiasi forma di chiarezza possa realizzarsi su questo punto, sarebbe necessario riuscire a discutere nel merito delle rispettive posizioni, cosa che, come potrà testimoniare chiunque abbia assistito a confronti tra gli antispecisti e gli “amanti della natura”, accade di rado, per non dire mai.
Quello che vorrei fare in questo intervento è chiarire alcuni presupposti di questo mancato dialogo, allo scopo di renderlo finalmente possibile. Poiché intervengo come antispecista, è chiaro che tenterò di evidenziare quali sono gli aspetti della posizione antispecista che mi sembrano solitamente offuscati o non adeguatamente presi in considerazione in questo tipo di dibattiti. In secondo luogo, tenterò di chiarire quelli che mi sembrano i principali problemi che, da un punto di vista antispecista, emergono dalle posizioni dell’ambientalismo più radicale.
Riflettere sull’ossessione identitaria
È facile osservare, nelle discussioni che hanno ad oggetto il nostro rapporto con il non-umano, come la discussione degeneri facilmente in una lotta tra “vegani” e “non-vegani”. Si dirà: è inevitabile che accada così, basta solo evitare che il confronto diventi scontro tra identità irriducibili. Sembra inevitabile, infatti, che in ogni discussione in cui si scontrano tesi opposte attorno a cui si polarizzano opinioni e gruppi diversi, si inizi a parlare di “noi” e “voi”, cioè di “identità” fisse e rigide. Ma questo, nel caso specifico della disputa sul nostro rapporto con la natura in generale e con gli animali in particolare, è un fenomeno che andrebbe evitato perché impedisce strutturalmente di cogliere il vero oggetto del dibattito. Non si tratta solo di un problema di comunicazione (cioè di “come” si dicono le cose), ma del fatto che non si riesce a intendersi su ciò di cui si parla (dunque di “cosa” si sta parlando). In altri termini, la discussione non solo non va avanti, ma nemmeno inizia. O meglio, inizia un “dialogo” tra chi parla di A e chi parla di B, mentre entrambi sono convinti di parlare di C.
Anche per questo gli appelli ad andare oltre lo stallo comunicativo sono inefficaci e, in realtà, illusori. Certo, è necessario fare uno sforzo collettivo in questo senso per facilitare la comunicazione, ma le esortazioni a non scadere nella mera contrapposizione tra “noi” e “voi” non potranno avere successo se prima non si coglie la posizione di partenza di queste due tesi che non sono affatto simmetriche. Non ci troviamo, in questo dibattito, di fronte ad un’opposizione tra due identità. Perché soprattutto quelli che a prima vista sembrano possedere un’identità più netta e rigida – i vegani – sono proprio coloro che non dovrebbero mai permettersi di affrontare la discussione in questo modo. E non per “educazione” o per “facilitare” la comunicazione, ma perché non ne hanno il diritto. Per due motivi.
In primo luogo, perché presentandosi come “vegano” l’interlocutore antispecista rischia di far travisare completamente la sua posizione nella discussione. Chi è infatti il “vegano”? È una persona che “non mangia carne” e che spera o intima a terzi di essere come lui, cioè di adeguarsi alla sua identità cioè al suo modo di vivere? No, non è questo e, se fosse questo, avrebbero ragione coloro che gli si oppongono a trovare poco significativa la sua posizione e le sue opinioni. Il veganismo è infatti una pratica e, in quanto tale, non è il punto di partenza, la tesi che andrebbe discussa. È, al limite, il punto di arrivo della vera tesi che si tratta di discutere: ovvero la plausibilità etica e politica della liberazione animale. Il che significa: è possibile, auspicabile o necessario, in termini etici e politici, sottrarre gli animali non umani al giogo del potere umano, allo sfruttamento di cui sono fatti oggetto (meglio: attraverso cui sono resi “oggetti”), al dolore, alla morte? Questa è la domanda che i vegani pongono quando si parla del nostro rapporto con i non-umani. E la pongono non in quanto vegani (cioè portatori di uno stile di vita) ma in quanto antispecisti (cioè sostenitori di una visione etico-politica). Dunque sarebbe meglio che ad oggetto della discussione stesse l’antispecismo e non il veganismo[1].
In secondo luogo, e forse anche più importante, chi critica lo specismo non può dimenticare nemmeno per un momento che il suo compito nella discussione non è semplicemente affermare una tesi, ma fermare la mano che uccide delle vite: chi lotta per la liberazione animale cerca infatti di dare voce alle vittime impotenti di una sottomissione millenaria. Dietro di lui ci sono altre vite che, se potessero scegliere, sicuramente non accetterebbero il proprio destino di morte. Qual è allora “l’identità” dell’antispecista che parla nel dibattito? Quella di un umano o anche quella dei non-umani che egli spera di sottrarre al potere della società del dominio?
Questo non diminuisce la sua responsabilità nella discussione ma, anzi, la moltiplica, nel senso che egli deve mostrarsi responsabile nel far presente questo fatto (cosa di cui, occorre ammetterlo, raramente i vegani sono all’altezza). L’antispecista non deve, cioè, abusare della voce di cui è testimone, ma è importante che riesca a far emergere nella discussione che la sua posizione non è “sua”. Perché solo in questo modo può dire senza peccare di narcisismo morale: prendiamoci le nostre responsabililtà, discutiamo di ciò che siamo e, se possibile, cambiamo. Se questo aspetto non emerge e non viene messo al centro del dibattito allora effettivamente tutto diventa solo uno scontro tra “identità” umane contrapposte che non solo silenzierà, di nuovo, quelle voci animali inascoltate, ma che non potrà che avere gli esiti disastrosi che ben conosciamo. Se i vegani agiscono come portatori di uno “stile di vita” invece che come testimoni di una voce oppressa, mancano tragicamente il bersaglio e contribuiscono a rendere impossibile ogni discussione vera. Perché allora l’interlocutore vedrà in loro solo persone che cercano di affermare il proprio ego e il dolore che gonfia le loro voci apparirà inevitabilmente un urlo di prevaricazione.
D’altro canto, e anche questo va detto, se gli interlocutori dei vegani impostano la discussione ad un livello “immediato”, “pratico”, è inevitabile che si finisca per parlare di “stili di vita”. Se il problema dell’oppressione animale, della sua giustificabilità e necessità, viene affrontato non in sé ma per il modo in cui oggi gli stili di vita incidono sull’ambiente, si è già affossata la discussione. Quando si critica la produzione di soia o di riso per mostrare che anch’essa è violenta, si commette una scorrettezza. Si aggira la domanda sull’oppressione animale (“è giustificata?”) e si sposta automaticamente la discussione sugli “stili di vita” e sui loro “effetti” più o meno violenti. In questo modo, ci si sottrae ad una domanda di diritto con una constatazione di fatto: tu vegano non sei meno violento di me non-vegano. Tutti ugualmente colpevoli, tutti assolti. A parte le riserve che ho su questi “fatti” che vengono sbandierati come certezze assolute – e su cui dirò qualcosa alla fine di questo intervento – mi sembra chiaro che, così facendo, si elude ogni confronto nel merito. Si parla solo di ciò che interessa chi accetta l’oppressione animale (lo “stile di vita”) e non se l’oppressione sia in sé giusta.
Centrare i problemi politici
La questione, per come la vedo, andrebbe impostata in termini politici, cioè parlando del tipo di mondo per cui lottiamo. Quando si lotta contro il capitalismo globalizzato e contro tutte le forme di oppressione disegniamo infatti un mondo che ancora non c’è. Ora, rispetto a questa dinamica di liberazione c’è un problema sia con chi insegue l’ideale contadino tradizionale, sia con chi pratica l’autoproduzione.
1. I limiti della tradizione
In primo luogo, non è affatto chiaro perché il mondo agricolo “pre-moderno” dovrebbe essere considerato un ideale rispetto al mondo tecnologico contemporaneo. Infatti se si prende questo mondo così com’era, allora lo si dovrebbe restaurare con tutte le caratteristiche che esso possedeva (incluso il patriarcato, la gerontocrazia, il razzismo ecc.); senza dimenticare che lo sviluppo “tecnologico” esiste dall’alba dei tempi, dunque non è ben chiaro a quale fase di questo sviluppo bisognerebbe arrestarsi: a livello del 1500, cioè poco prima della modernità? E perché non all’anno 1000 o al neolitico? Chi, e come, stabilisce qual è il modello “ideale” di produzione?
Se poi si dice, come ovviamente si dice, che no, questo modello ci va bene per alcuni aspetti (il rispetto della natura), ma non per altri (la violenza interumana) allora scatta davvero la domanda: perché tutto dovrebbe cambiare tranne che l’uccisione di animali? La storia di ribellione cui facciamo parte è una storia che ha visto mettere in discussione progressivamente lo schiavismo e l’oppressione di genere. Ogni volta si giustificava questa oppressione nei modi più diversi, salvo poi dover ammettere che gli “inferiori” erano tali solo perché la violenza li rendeva tali. Per quale motivo gli animali - che fanno parte di questa storia al pari delle donne, degli schiavi e dei bambini - non dovrebbero vedersi riconosciuto il diritto alla libertà? Perché devono continuare a dipendere dalla nostra volontà e vivere solo per i nostri interessi? È questa la domanda fondamentale che gli antispecisti rivolgono ai loro interlocutori: cosa giustifica questo trattamento degli animali? L’unica risposta possibile, bisogna avere l’onestà di riconscerlo, è: la violenza. Poiché noi possiamo fare questo agli animali, lo facciamo. Non c’è altra giustificazione. È la stessa giustificazione che stava dietro alla violenza esercitata contro gli oppressi umani: possiamo opprimerli e lo facciamo. Tutte le argomentazioni che si possono trovare a posteriori per rendere “giusto” questo rapporto di sfruttamento sono delle razionalizzazioni. L’oppressione e la violenza vengono prima. E non sono cancellate dal trovare un appiglio che le giustifichi.
C’è uno squilibrio di forze in campo e questo rende possibile a noi di vivere sulle spalle degli altri animali. Abbiamo la forza per farlo, siamo la maggioranza a ritenere di volerlo fare, dunque lo facciamo. Se si arrivasse ad ammettere questo saremmo ad un punto del dibattito in cui si potrebbe parlare senza cattiva coscienza e con definitiva chiarezza. Ma allora sarebbe inevitabile anche dire, a chi pensa che uccidere animali sia giustificato perché lo vogliamo e abbiamo la forza per farlo, che chiunque potrebbe a suo piacimento escludere un essere umano dal cerchio della considerazione morale. Basta volerlo e avere la forza per farlo. E non c’è giustificazione “morale” che tenga perché la morale ha escluso esseri umani per millenni dal suo ambito e ha fornito ottime giustificazioni (cioè razionalizzazioni) di ciò. Ma la stessa riflessione morale che ha messo in crisi questi pregiudizi ha anche dimostrato che non esistono “ragioni” morali per escludere gli animali dall’etica. Sono esseri senzienti, comunicano, vivono e interagiscono con noi e tanto più interagiscono con noi quanto più noi li consideriamo degni di attenzione. Allora l’unica giustificazione per escluderli dalla considerazione etica resta la violenza: li escludiamo perché non vogliamo considerarli degni di attenzione morale. E se questa è la giustificazione, allora chiunque può escludere esseri senzienti (anche umani) dall’ambito della morale: basta volerlo e poterlo fare. Credo che questo sia il cuore della critica antispecista alla società tradizionale e mi sembra un punto difficilmente aggirabile.
2. L’auto-produzione e il mondo che non c’è
Per quanto riguarda invece l’auto-produzione, ho l’impressione che anche qui il dibattito sia schiacciato troppo sull’attualità e sullo “stile di vita”. Si afferma: il vostro stile di vita vegan comporta l’uccisione di vite non-umane (e lo sfruttamento di vite umane) che sarebbe in parte evitata da uno stile di vita non cittadino, anche non vegan, purché legato quanto più possibile all’auto-produzione.
Anche in questo caso si scambia la discussione sul veganismo con la discussione sull’antispecismo. È vero, il veganismo è il modo in cui singoli individui cercano di mettere in pratica l’antispecismo qui e ora, cioè in una società specista. Ma l’antispecismo è qualcosa di più di questo: è una visione generale dei rapporti tra umani e tra questi ultimi e le altre specie. È una visione sociale e politica complessiva. Dunque discutere questa visione a partire dall’impatto ambientale che lo stile di vita degli individui vegan comporta è totalmente errato. In tal modo, si confonde infatti la discussione di un ideale etico-politico (cioè, di nuovo, una discussione di diritto e di giustizia) con l’analisi dei presunti effetti che lo stile di vita vegan ha nel mondo attuale (cioè si sposta il discorso sul piano fattuale). Non solo. Oltre all’errore logico di eludere l’argomento che l’antispecista pone ad oggetto della discussione (“è giustificato uccidere animali?”), si aggiunge qui l’errore fattuale di considerare il mondo-com’è-oggi l’orizzonte di ogni possibile organizzazione della vita umana e non-umana. Nessuno tuttavia conosce le potenzialità di un mondo liberato. Ci sono troppe variabili incognite per poter dire quali sono i costi e gli effetti della liberazione animale. Le terre disponibili, la popolazione, per citarne solo due, sono fattori che non si possono calcolare in anticipo.
Il primo fattore non potrà essere preso adeguatamente in considerazione se non si pensa, al tempo stesso, l’espropriazione delle terre occupate dal capitale che è il presupposto di ogni azione di liberazione successiva (sia la sua equa distribuzione tra gli umani che la sua restituzione al resto del vivente). Ma anche la seconda variabile va considerata con attenzione. Non sta scritto da nessuna parte che un’umanità liberata voglia espandersi o anche solo mantenersi a livello attuale e non possa invece volontariamente o automaticamente realizzare una politica demografica inversa. Parliamo di fenomeni che sono lasciati alla decisione libera di un’umanità libera e che viaggiano tra le generazioni e che quindi non ha proprio senso definire in anticipo.
Ma allora, a maggior ragione, i nostri calcoli sull’attualità sono già sballati. Non si può misurare il futuro con i criteri del presente. L’auto-produzione è sicuramente un modello da seguire e ove possibile praticare nell’immediato, ma non può considerarsi (nei modi in cui è praticata ora) il necessario modello cui tutti dovranno in futuro adeguarsi.
C’è anche un terzo fattore che non viene minimamente citato nelle discussioni e che invece considero centrale: il ruolo che la scienza e la tecnica possono svolgere in un mondo liberato. So bene che molti considerano (giustamente) la scienza e la tecnica uno dei fattori distruttivi del mondo moderno. Ma si sorvola troppo spesso sul fatto che ciò è vero soprattutto perché scienza e tecnica lavorano al servizio del profitto e delle classi dominanti. Non è affatto necessario che sia così.[2] Cosa potrebbero fare uomini liberi e uguali che affrontano problemi discutendo razionalmente e senza dover difendere né il proprio interesse personale, nè quello della propria specie ma invece l’interesse di una collettività inter-specifica? Non lo sappiamo. Sappiamo però che oggi una società irrazionale e conflittuale come la nostra è in grado di vincere la forza di gravità e tenere in scacco l’antimateria. Mi riesce difficile credere che una società razionale e fondata sulla mutua solidarietà non possa produrre riso in modo non-violento. Ma potrei sbagliarmi. Quello che mi sembra importante e vorrei ribadire, è che le stesse possibilità tecniche di una società a venire non possono essere calcolate in anticipo e, dunque, andrebbe evitato come argomento di dibattito ogni necessità legata all’attuale condizione tecnica. O meglio, è giusto riconoscere ciò che oggi siamo costretti a fare visti i fattori sopra indicati (disponibilità della terra, popolazione, scienza e tecnica), ma non è lecito proiettare questi fattori nel futuro perché il loro rapporto e il loro peso specifico non sono predeterminabili.
E dunque ciò che deve apparire in primo piano non è tanto quello che oggi possiamo fare, ma quello che oggi vogliamo fare e che forse potremmo fare domani. E la domanda ritorna ad essere quella di prima: in un tale mondo si continuerà a voler dominare e uccidere altri esseri senzienti? Oppure parliamo di un mondo in cui questa volontà non c’è più e in cui si tenterà perciò, quanto più possibile, di avvicinarci a questo ideale di non-violenza e di rispetto dell’altro?
Cosa significa dire “non sono antispecista”?
Per concludere, sarebbe necessario allora intendersi su qual è il vero argomento di cui si dibatte quando si parla di natura. È lecito e necessario (pur con tutti i limiti indicati) parlare di “impatto ambientale” e dei limiti del sistema attuale che rendono (oggi) inevitabile una certa violenza che esercitiamo sul resto del vivente. Nessun vegan potrà fare a meno di considerare il proprio ruolo all’interno di una società complessa e accontentarsi delle proprie scelte individuali, lavandosi così la coscienza, dimenticando che si tratta in primo luogo di cambiare questa società.
Ma è altrettanto necessario, e aggiungerei, doveroso, per chi critica questo atteggiamento, considerare veramente e nel merito l’istanza etica e politica che l’antispecismo porta avanti. Tale istanza chiede la liberazione animale come conseguenza di un percorso storico che ha portato al riconoscimento progressivo del diritto alla libertà e all’autonomia di altri-da-noi (etnie, donne, bambini). Se coloro che si oppongono all’antispecismo condividono, come accade, questo percorso nel suo insieme, devono spiegare perché intendono interromperlo proprio quando esso, introducendo le voci di altri altri-da-noi (gli animali non umani), inizia a mettere in discussione il loro “stile di vita”. Finché non verrà mostrata una motivazione morale che possa rendere giusta questa presa di posizione – e finora non ne è stata prodotta nessuna: si sono sempre portati avanti argomenti fattuali (l’impatto ambientale ecc.) – gli antispecisti avranno tutto il diritto di interpretare questa ostinazione come difesa di un privilegio.
Questo rende le posizioni nella discussione asimmetriche. Nemmeno per gli “antispecisti” si può dire – come abbiamo detto all’inizio dei vegani – che sono un gruppo a difesa di se stesso, che si arrocca dietro un’identità: essi non hanno privilegi da proteggere. Vogliono solo che la voce delle vittime animali venga ascoltata. Possono sbagliare, anzi sicuramente lo fanno, soprattutto quando dimenticano questa loro natura di testimoni di una sofferenza altrui e si chiudono nella comoda difesa di un’etichetta e di uno stile di vita. Ma ciò non autorizza i loro interlocutori ad approfittarne e a cambiare discorso quando il discorso si fa fastidioso perché li richiama alle loro responsabilità etiche e politiche. Perché chi dichiara di “essere antispecista”, se è persona coerente e informata, dichiara la propria appartenenza ad un mondo che non c’è. Dichiara di essere disposto a fare tutto il possibile perché quel mondo si realizzi, perché la giustizia e la libertà abbiano la massima diffusione possibile. Chi invece dichiara di “non essere antispecista” non sta dicendo nulla, perché nessuno può fino in fondo essere antispecista in un mondo come il nostro che vive, di fatto, sullo sfruttamento degli umani e dei non-umani. Si può però volerlo fino in fondo, cioè voler agire fin da ora perché un mondo senza dominio si realizzi. Chi dichiara di “non essere antispecista” sta invece solo dicendo che non vuole esserlo[3], anzi che nemmeno vuole voler esserlo.. Chi dice “non sono antispecista” pensa di fare una constatazione di fatto (come dire: “non sono vegano”, “non faccio le cose che fai tu” ecc.) ma in realtà sta facendo una dichiarazione di intenti: sta dicendo “io non voglio essere antispecista”, cioè “non intendo fare tutto il possibile perché la libertà e la giustizia valgano per quanti più esseri viventi possibili”. Sta insomma chiudendo la sfera del possibile con una sua decisione.
Nessuno contesta la legittimità di questa decisione. Ma essa andrebbe esplicitata e non nascosta dietro razionalizzazioni a posteriori. Gli interlocutori degli antispecisti dovrebbero cioè avere il coraggio di ammettere ciò che non vogliono e dovrebbero poi chiedersi perché la libertà che sono disposti ad accordare ad altri esseri coincida curiosamente con i confini del proprio privilegio. Perché allora gli antispecisti potranno sempre pensare che quella che appare una decisione “libera” sia in realtà condizionata da un semplice ed egoistico interesse. E a pensar male, come diceva qualcuno, si fa peccato ma quasi sempre ci si azzecca.
[1] Ad ogni modo, anche sull’identità dell’antispecista dirò qualcosa verso la fine di questo intervento, perché anch’essa può dare adito a interpretazioni errate
[2] Non è qui ovviamente il caso di aprire la questione enorme della scienza e della tecnica. È chiaro, però, che se si accetta in parte l’evoluzione della scienza e della tecnica (come tutti i sostenitori delle fattorie “tradizionali” e dell’auto-produzione fanno), non si può negare il loro possibile sviluppo futuro. Altrimenti si cade in una posizione “primitivista” che nega, a mio modo di vedere in modo generico e affrettato, che si possa criticare scienza e tecnica in nome di una razionalità più ampia, una razionalità non alienata ma “erotizzata” nel senso di Herbert Marcuse. D’altronde, il nostro rapporto con l’ambiente e le altre specie è da sempre mediato dalla tecnologia (l’industria litica ci precede addirittura nell’evoluzione): la tecnica è parte della natura umana, non è qualcosa che le si sovrapponga dall’esterno e, dunque, al pari dei modi di produzione tradizionali, anche qui qualcuno dovrebbe spiegare quando è che lo sviluppo tecnologico dovrebbe arrestarsi per essere considerato “ottimale”. Al neolitico? Al paleolitico? E a quale delle tante e diverse “fasi” del paleolitico?
[3] Ringrazio Marco Reggio per questa osservazione.