di Alessandra Galbiati
Saranno in tanti, domenica 29 maggio a Genova, a contestare Slow Fish. Un’iniziativa che si preannuncia all’insegna della “sostenibilità” e delle antiche arti della pesca. L’evento è patrocinato da Comune, Provincia e Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali ed è direttamente connesso a Slow Food.
Ci si può legittimamente domandare come mai gli animalisti si mobilitino contro una manifestazione che per molti versi promuove un cambiamento degli stili di vita più consumistici: un’alimentazione più sana, il rispetto degli equilibri dei mari, delle acque e della biodiversità, la difesa di categorie di lavoratori in pericolo di estinguersi (i pescatori), il ritorno ad antiche tradizioni culinarie e marinare, la difesa di specie autoctone o in via di estinzione.
Tra gli animali, i pesci e tutti gli altri abitanti dei mari, dei fiumi e dei laghi sono in assoluto i più ignorati. Non che la sofferenza degli altri animali da reddito importi molto, ma sicuramente è più facile pensare di poter uccidere e sventrare un pesce che non un maiale o un coniglio. Non trattandosi di mammiferi, non riuscendo minimamente a rapportarci a loro e conoscendoli quasi esclusivamente sotto forma di cibo, la loro vita ci è totalmente estranea. La sofferenza dei pesci è invisibile, inudibile e quindi, per molti, inesistente. L’agonia per asfissia dei pesci può essere lunghissima (fino a decine di ore), ma chiunque si sia fermato qualche minuto a osservare un placido e bonario pescatore sulla riva del fiume, sa che i salti e il boccheggiare di questi animali nel cestello appoggiato sull’erba non smuovono minimamente la compassione e l’empatia della persona in questione. Se si domanda qualcosa riguardo alla morte lentissima e crudelissima cui questo particolare tipo di cacciatore ha condannato le sue vittime, ci si sente rispondere in maniera fantasiosa: «Ma sono pesci, non sentono niente», «è lui che ha abboccato all’amo, mica io che l’ho rincorso», «se non lo pescavo io se lo mangiava comunque un pesce più grande».
Queste risposte, senza stare ad analizzarle, danno prova dell’umana arroganza rispetto agli altri animali e di quanto molti siano indifferenti verso gli animali considerati a loro volta inferiori tra gli inferiori. Un bravo pescatore libererà dalle reti del peschereccio il delfino o la tartaruga marina rimasta impigliata (sempre che siano ancora vivi). Non pescherà i tonni piccoli e le altre specie in via di estinzione. Metterà in atto tutti quegli atteggiamenti e accorgimenti di “rispetto” per preservare il mare da ulteriori devastazioni. Ma il fatto che questa attività implichi l’uccisione di altre vite non viene mai messo in discussione. E qui non stiamo parlando di un surfista che uccide un pescecane che lo sta attaccando o di popolazioni che se non mangiassero pesce morirebbero di fame. Stiamo parlando di cibo di lusso, da mangiare “poco ma buono”, servito da famosi chef nei ristori di Slow Fish con menù da 40 euro.
Tutta questa etica esibita sulle nuove bandiere della eco-compatibilità, della sostenibilità, del biologico, non prende mai in considerazione la sofferenza degli altri. Si deve prestare la massima attenzione soltanto a noi, al nostro benessere, al nostro paesaggio (terrestre o marino fa poca differenza), per preservarlo per i nostri figli e nipoti. Il nostro impegno si ferma qui, la nostra etica, purtroppo, anche.
Che i veri abitanti dei mari vengano sventrati a miliardi ogni anno (nessuno ha una stima neppure precisa del numero di pesci e crostacei uccisi nel mondo), che siano esattamente loro il vero “paesaggio” che si dovrebbe proteggere, che si possa cominciare a pensare ad una decrescita della violenza (oltre che dei consumi), sono pensieri ignoti ai teorici della sostenibilità. Al massimo si riesce a strappare qualche frase (e qualche regolamento) contro le forme più gravi di maltrattamento animale, ma questo solo per gli animali allevati, non certo per la sardina o il polpo sul tavolo della pescheria.
Già nei bambini, l’empatia nei confronti dei pesci è scoraggiata. Pesciolini rossi vengono regalati come fossero cioccolatini a feste e fiere. Pesciolini combattenti vengono tenuti in bicchieri da tavola e gli acquari o - peggio ancora - le bocce d’acqua, sono tra gli oggetti di “arredo” più diffusi nelle case italiane. Mentre quasi tutti i genitori inorridirebbero se il figlioletto imbracciasse un fucile e andasse a caccia di animali nel bosco, ben pochi si opporrebbero se il bimbo sedesse con una canna da pesca a cercare di uccidere pesci (spesso vengono anche organizzate gare di pesca per bambini e bambine).
I pesci occupano un posto particolare nell’immaginario. Da un lato ci fanno entrare, con la fantasia, in un mondo sconosciuto e affascinante, ma poi, quando si tratta di imprigionarli, ucciderli e mangiarli, allora tornano ad essere quelle cose di poco conto che a migliaia si espongono sulle bancarelle dei mercati. I pescherecci issano dal mare reti contenenti miliardi di animali che, nel migliore dei casi, muoiono schiacciati sotto il peso dei loro simili; nel peggiore, dopo ore di muta - ma non per questo meno reale - sofferenza.
La contestazione a Slow Fish è promossa dal neonato progetto “Bio-Violenza”: www.bioviolenza.blogspot.com. Il mercato, rispondendo alle istanze di maggiore consapevolezza del consumatore occidentale, da qualche anno ha iniziato a proporre prodotti più “etici” e in sintonia con la crescente sensibilità per i problemi ambientali. La carne “bio”, il latte e le uova “bio”, i formaggi “bio” sembrano formule magiche che fanno svanire per incanto (e perché il consumatore sensibile cerca proprio di acquietare i suoi sensi di colpa) le terribili condizioni di vita degli animali negli allevamenti. Cancellare - o illudersi di poterlo fare - la sofferenza brutale dell’allevamento industriale non significa per nulla, però, mettere in dubbio la violenza con cui condanniamo alla morte gli altri esseri viventi. Anzi, rincuorati dalle nostre presunte “buone intenzioni” diventiamo ancora più riluttanti a porci la domanda più importante: chi ci autorizza a uccidere senza necessità?
Ci si può legittimamente domandare come mai gli animalisti si mobilitino contro una manifestazione che per molti versi promuove un cambiamento degli stili di vita più consumistici: un’alimentazione più sana, il rispetto degli equilibri dei mari, delle acque e della biodiversità, la difesa di categorie di lavoratori in pericolo di estinguersi (i pescatori), il ritorno ad antiche tradizioni culinarie e marinare, la difesa di specie autoctone o in via di estinzione.
Tra gli animali, i pesci e tutti gli altri abitanti dei mari, dei fiumi e dei laghi sono in assoluto i più ignorati. Non che la sofferenza degli altri animali da reddito importi molto, ma sicuramente è più facile pensare di poter uccidere e sventrare un pesce che non un maiale o un coniglio. Non trattandosi di mammiferi, non riuscendo minimamente a rapportarci a loro e conoscendoli quasi esclusivamente sotto forma di cibo, la loro vita ci è totalmente estranea. La sofferenza dei pesci è invisibile, inudibile e quindi, per molti, inesistente. L’agonia per asfissia dei pesci può essere lunghissima (fino a decine di ore), ma chiunque si sia fermato qualche minuto a osservare un placido e bonario pescatore sulla riva del fiume, sa che i salti e il boccheggiare di questi animali nel cestello appoggiato sull’erba non smuovono minimamente la compassione e l’empatia della persona in questione. Se si domanda qualcosa riguardo alla morte lentissima e crudelissima cui questo particolare tipo di cacciatore ha condannato le sue vittime, ci si sente rispondere in maniera fantasiosa: «Ma sono pesci, non sentono niente», «è lui che ha abboccato all’amo, mica io che l’ho rincorso», «se non lo pescavo io se lo mangiava comunque un pesce più grande».
Queste risposte, senza stare ad analizzarle, danno prova dell’umana arroganza rispetto agli altri animali e di quanto molti siano indifferenti verso gli animali considerati a loro volta inferiori tra gli inferiori. Un bravo pescatore libererà dalle reti del peschereccio il delfino o la tartaruga marina rimasta impigliata (sempre che siano ancora vivi). Non pescherà i tonni piccoli e le altre specie in via di estinzione. Metterà in atto tutti quegli atteggiamenti e accorgimenti di “rispetto” per preservare il mare da ulteriori devastazioni. Ma il fatto che questa attività implichi l’uccisione di altre vite non viene mai messo in discussione. E qui non stiamo parlando di un surfista che uccide un pescecane che lo sta attaccando o di popolazioni che se non mangiassero pesce morirebbero di fame. Stiamo parlando di cibo di lusso, da mangiare “poco ma buono”, servito da famosi chef nei ristori di Slow Fish con menù da 40 euro.
Tutta questa etica esibita sulle nuove bandiere della eco-compatibilità, della sostenibilità, del biologico, non prende mai in considerazione la sofferenza degli altri. Si deve prestare la massima attenzione soltanto a noi, al nostro benessere, al nostro paesaggio (terrestre o marino fa poca differenza), per preservarlo per i nostri figli e nipoti. Il nostro impegno si ferma qui, la nostra etica, purtroppo, anche.
Che i veri abitanti dei mari vengano sventrati a miliardi ogni anno (nessuno ha una stima neppure precisa del numero di pesci e crostacei uccisi nel mondo), che siano esattamente loro il vero “paesaggio” che si dovrebbe proteggere, che si possa cominciare a pensare ad una decrescita della violenza (oltre che dei consumi), sono pensieri ignoti ai teorici della sostenibilità. Al massimo si riesce a strappare qualche frase (e qualche regolamento) contro le forme più gravi di maltrattamento animale, ma questo solo per gli animali allevati, non certo per la sardina o il polpo sul tavolo della pescheria.
Già nei bambini, l’empatia nei confronti dei pesci è scoraggiata. Pesciolini rossi vengono regalati come fossero cioccolatini a feste e fiere. Pesciolini combattenti vengono tenuti in bicchieri da tavola e gli acquari o - peggio ancora - le bocce d’acqua, sono tra gli oggetti di “arredo” più diffusi nelle case italiane. Mentre quasi tutti i genitori inorridirebbero se il figlioletto imbracciasse un fucile e andasse a caccia di animali nel bosco, ben pochi si opporrebbero se il bimbo sedesse con una canna da pesca a cercare di uccidere pesci (spesso vengono anche organizzate gare di pesca per bambini e bambine).
I pesci occupano un posto particolare nell’immaginario. Da un lato ci fanno entrare, con la fantasia, in un mondo sconosciuto e affascinante, ma poi, quando si tratta di imprigionarli, ucciderli e mangiarli, allora tornano ad essere quelle cose di poco conto che a migliaia si espongono sulle bancarelle dei mercati. I pescherecci issano dal mare reti contenenti miliardi di animali che, nel migliore dei casi, muoiono schiacciati sotto il peso dei loro simili; nel peggiore, dopo ore di muta - ma non per questo meno reale - sofferenza.
La contestazione a Slow Fish è promossa dal neonato progetto “Bio-Violenza”: www.bioviolenza.blogspot.com. Il mercato, rispondendo alle istanze di maggiore consapevolezza del consumatore occidentale, da qualche anno ha iniziato a proporre prodotti più “etici” e in sintonia con la crescente sensibilità per i problemi ambientali. La carne “bio”, il latte e le uova “bio”, i formaggi “bio” sembrano formule magiche che fanno svanire per incanto (e perché il consumatore sensibile cerca proprio di acquietare i suoi sensi di colpa) le terribili condizioni di vita degli animali negli allevamenti. Cancellare - o illudersi di poterlo fare - la sofferenza brutale dell’allevamento industriale non significa per nulla, però, mettere in dubbio la violenza con cui condanniamo alla morte gli altri esseri viventi. Anzi, rincuorati dalle nostre presunte “buone intenzioni” diventiamo ancora più riluttanti a porci la domanda più importante: chi ci autorizza a uccidere senza necessità?
(fonte: www.liberazione.it)