Cara sig.ra Tamaro,
le emozioni che suscita la lettura del suo racconto per il convegno “La coscienza degli animali” (apparso in anteprima sul Corriere della sera di oggi) sono davvero forti e vere.
Anche chi è giovane e vive nel cuore di una grande città ha sicuramente visto nella sua vita qualche camion stipato di condannati a morte. La pianura padana, le grandi strade provinciali, le autostrade, specie nelle ore buie, sono percorse dall’indifferenza assordante dei grossi tir che ritmano il primo e ultimo viaggio di questi dannati.
Chiunque ha intravisto tra le sbarre le grosse narici umide delle mucche, il grugno rassegnato o ribelle dei maiali o le penne e gli occhietti inquieti e curiosi delle galline. Solo chi è cieco nel cuore, morto insieme alla sua umanità, non si è mai soffermato neppure un momento a sprecare un pensiero per quegli schiavi, nati per morire, cresciuti nella noia e nel terrore, ridotti a merce perché a noi umani piace il sapore del loro corpo. E non occorre essere vegetariani per toccare con mano la sofferenza. Non occorre essere particolarmente sensibili per sapere che questa violenza è ignobile perché esercitata su esseri che non si possono neppure rendere conto del perché e del come dell’ingiustizia con cui marchiamo le loro carni e la loro vita. Ma è un tacito accordo: occorre non pensarci, non soffermarsi troppo col pensiero perché altrimenti quei “martiri” (peccato che il martire umano scelga il proprio infelice destino, gli animali no) si trasformano in incubi, in pensiero ossessivo, in una tremenda ingiustizia e iniziano a ingombrare troppo la nostra testa e iniziano a fare pressione, a voler essere presi in troppo seria considerazione. Allora qualcuno diventa vegetariano ma qualcun altro non si accontenta di non mangiare carne e vuole che agli animali venga ridata la dignità per la loro vita rubata. E se questo succede (e grazie al cielo succede e succede sempre più spesso e a sempre più persone) allora gli animali iniziano ad avere dei complici, qualcuno che non sopporta più di vederli schiavi, qualcuno che decide che il loro destino è insopportabile, che la loro vita è tremenda, che la loro vita deve essere riscattata.
Il suo racconto colpisce al cuore e resuscita le emozioni profonde, solitamente sepolte nell’infanzia, della compassione e dell’empatia. Gli animali che tante emozioni ci regalano da bambini, con l’età si trasformano prima in fantasmi e poi in esseri inferiori. Così irrimediabilmente inferiori che, quando siamo cresciuti e abbiamo i soldi per decidere cosa comprare da mangiare, si sono magicamente già trasformati insieme con la nostra cattiva coscienza collettiva, in cibo, oggetti, merce. Di loro ci resta qualche ricordo e magari un “esemplare da compagnia” che ci consola di tutta la brutalità che esercitiamo sugli altri.
Ma la campagna bucolica del vecchio contadino non è la cura per l’incubo.
Non era in quei cortili (così di moda oggi) che si scannava il maiale?
Non era in quelle assolate aie che il nonno appendeva i conigli dopo averli bastonati in testa?
Non era da quelle porticine discrete che la zia chiamava la gallina preferita e la uccideva a tradimento dopo averle dato un’ultima carezza? Non era da quelle stalle odorose e calde che si sentiva la mucca piangere per giorni quando le si portava via il vitellino? Sì, la mucca dei nonni aveva un nome, ma anche ai migliori schiavi veniva dato un nome.
Perché al posto dell’incubo vogliamo sostituire un sogno mediocre?
Perché rinunciare, ancor prima di averci sperato, ad un mondo senza più schiavi?
Perché accontentarsi di rendere più sopportabile la schiavitù, invece che bandirla definitivamente dai nostri pensieri, dai nostri cuori e dalle nostre azioni?
Se vogliamo svegliarci dall’orribile incubo in cui viviamo noi umani e in cui obblighiamo gli animali “addomesticati”, allora iniziamo a immaginare una società liberata in cui nessuno asservisca nessuno, in cui chi nasce abbia diritto a sperare di morire di vecchiaia o di malattia e non assassinato con distaccata premeditazione.
Se possiamo ancora sognare, sogniamo in grande e non accontentiamoci di altrettanto utopistiche vie di mezzo che non possono soddisfare né chi vuole mangiare carne né chi aspetta di essere liberato davvero. La violenza “sostenibile” fatta alla mucca che muccheggia o che vive secondo la propria mucchità lasciamola alle coscienze addomesticate di chi ancora spera di avere la botte piena e il marito (o la moglie) ubriaco. Per noi e gli altri animali vogliamo ben altro.
Progetto BioViolenza