Volantino distribuito durante il corteo nazionale organizzato dall’associazione essereAnimali a Modena per “l’abolizione degli allevamenti di animali da pelliccia”.
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“Con tutti gli occhi la creatura vede
l’aperto. Solo i nostri occhi sono
come volti all’indietro e attorno ad essa,
trappole, poste tutte intorno
al suo libero uscire. Ciò che fuori é
noi lo sappiamo solamente dal volto
dell’animale.”
R. M. Rilke, Elegie duinesi
Questo particolare periodo dell’anno è
tristemente noto per l’uccisione, negli allevamenti, di milioni di
visoni: viventi che, negli ingranaggi di questo sistema, diventano oggetto, merce.
Nell’ultimo anno la situazione, per i
visoni, è decisamente peggiorata: nuovi allevamenti, realizzati e
progettati, si aggiungono a quelli già esistenti.
La realtà ci dimostra che l’allevamento
dei visoni è tutt’altro che in crisi: il settore cresce di anno in anno e
le previsioni e le speranze dell’AIAV (Associazione Italiana Allevatori
Visone) sono che, nei prossimi anni, decuplicherà addirittura.
Si stringe, anche in questo comparto del
“Made in Italy”, un insidioso sodalizio tra “tradizione”, “economia
globale” e “ecocompatibilità”.
Nel solco della “tradizione” i
consolidati sistemi di allevamento di altri animali si incontrano con le
nuove forme dello sfruttamento: sempre più tecnologiche e più
“rispettose” del benessere animale.
“Un tipo di allevamento dove il benessere animale è curato ai
massimi livelli, e non potrebbe essere diversamente proprio perché il
benessere dell’animale diventa di conseguenza il benessere
dell’allevatore.” (Giovanni Bellina, allevatore di visoni)
Anche in questo settore la
“globalizzazione” non è più letta come un problema ma un’ottima e
remunerativa opportunità di soddisfare le richieste di un mercato sempre
più vorace.
In questo connubio, non può non figurare
la presunta sensibilità ambientalista: di fatto, i nuovi allevamenti si
vantano del loro essere “assolutamente ecocompatibili”. Gli
allevatori con le loro aziende si ergono così a tutori e conservatori
dell’ambiente dimenticandosi forse l’eredità ecocida lasciataci da
decenni di iper-sfruttamenti di corpi e Terra.
Se gli allevamenti di visoni non sono in
crisi, il discorso della “crisi” è comunque usato dai capofila dell’AIAV
come un grande alibi per giustificare l’ingiustificabile ed incentivare
sempre più l’adesione e la complicità a questo sistema di
annientamento.
Sicuramente le responsabilità
dell’attuale situazione di sfruttamento generalizzato, di disagio e
miseria non vanno attribuite ad un singolo settore “sbagliato” ma
all’intero sistema che nella sua concezione di mondo condanna, a priori,
le esistenze di animali, umani e non, e della sopravvivenza della Terra
stessa.
Questa, secondo noi, dovrebbe essere la reale crisi di cui dovremmo occuparci.
In quest’ultimo anno è fiorita
un’opposizione a questi consolidati e nuovi progetti di allevamenti di
visoni. Un’opposizione dalle molteplici voci che, nel portare le diverse
istanze, esprime la pluralità di contenuti e pratiche: petizioni,
manifestazioni, biciclettate, liberazioni di visoni dagli allevamenti.
Qui, ci interessa soffermarci in particolare su quest’ultimo aspetto
senza per questo metterlo necessariamente al di sopra di altre scelte di
azione.
È importante ricordare che, negli anni
passati, le liberazioni e i sabotaggi sono ciò che hanno maggiormente
contribuito alla chiusura di numerosi allevamenti di visone in Italia.
Recentemente, sui giornali e siti
internet, abbiamo letto le notizie di tre azioni che hanno portato alla
liberazione di migliaia di animali e ai danneggiamenti delle strutture
di detenzione in Emilia Romagna, Lombardia e in luogo sconosciuto.
Quello che ci interroga è come,
all’interno dei diversi contesti antispecisti, vengano interpretate tali
azioni. A seguito di alcune liberazioni, regnano piuttosto il silenzio o
l’ambiguità. Nel migliore dei casi viene riportata la notizia dei media
e, forse, se questi premono, un rapido commento in bacheca. Sentiamo
che la mancanza di riflessioni e di chiare prese di posizione è forse un
sintomo di una mediatizzazione che coinvolge e si insidia anche nel movimento di liberazione animale. Resistere alla società dello spettacolo
è, di questi tempi, difficile di fatto sembra che la rincorsa alla
“credibilità” produca una riflessione pre-confezionata per i media
stessi o per il “proprio” pubblico.
Queste modalità sembrano agire in
direzione di un de-potenziamento del radicale contenuto delle azioni di
liberazione: esprime una netta rottura con i sistemi di sfruttamento,
esplicita il conflitto e rintraccia le radici delle oppressioni.
Aprire delle gabbie ha un forte
significato in sé. Non tutte le azioni di liberazione vengono
rivendicate con degli scritti. In molti dei testi diffusi si percepisce
forte la volontà di rompere con questo esistente, il rifiuto di sedere
ai “tavoli delle trattative” e di iscrivere le azioni e le mobilitazioni
dentro un percorso legislativo. Il messaggio che viene espresso non si
limita alla mera riproduzione della pratica stessa, bensì stimola lo
sviluppo di un pensiero critico e radicale, da affinare e costruire
costantemente nei percorsi di lotta. Le liberazioni ci restituiscono un
senso, un bisogno di libertà. La questione è ben altra dal ricorrere ad
esperti per valutare gli inevitabili impatti ambientali o per sostenere
che il visone è ancora “parte della natura” anche fuori dalla gabbia.
Pensiamo che quello che avviene nei
“territori delle pratiche” meriterebbe di essere preso in
considerazione, anche solo per esprimere una critica, un dissenso, un
apprezzamento…sarebbe forse segno di vitalità, di situazioni che si
interrogano sul proprio e sull’altrui agire. Forse troppo spesso si
utilizzano categorie o si scelgono forme discorsive che, più o meno
implicitamente, rilegittimano i sistemi di sfruttamento o che generano
ambiguità.
Siamo dalla parte di chi apre le gabbie.
Siamo dalla parte di quegli animali che corrono liberi nei campi, nella natura.
Coordinamento Liber*Selvadec