La bio-violenza della prima ora ha risposto a queste critiche proponendo dei modelli di produzione bucolici, che evocassero la tradizione e un passato idealizzato. I simboli di questa narrativa sono la vecchia fattoria familiare, il contadino “di una volta” e animali liberi di scorrazzare per la campagna.
Proprio perché questo passato “premoderno” è sconosciuto al cittadino occidentale medio, esso è risultato affascinante ed è parso una risposta credibile a quanti, antropocentricamente, non hanno mai messo in dubbio lo status degli animali come proprietà.
La bio-violenza delle origini, quindi, con un gesto solo apparentemente rivoluzionario, ha concesso che gli animali fossero individui (e non più oggetti), ma non ha mai messo in dubbio che la loro sorte potesse essere discussa e decisa al di fuori delle scelte individuali di consumo.
Nel tempo, la narrativa sul benessere animale e sulla sostenibilità degli allevamenti si è arricchita di nuovi contributi, molti dei quali si ascrivono al ruolo sacrale che la tecnologia riveste nel legittimare il capitalismo.
Si è quindi approdati ad una bio-violenza 2.0, dove la sostenibilità e il benessere animale sono raggiungibili in un modo ancora più ideologicamente allineato, ovvero attribuendo alla specie umana ancora maggiori diritti di controllo e manipolazione sui corpi degli animali non umani.
In questo articolo si affrontano quindi, seppur in modo non esaustivo, alcune delle novità che l’industria ha proposto o introdotto per rispondere alle pressioni sul benessere animale e sulla sostenibilità ambientale e che dovrebbero essere da monito per quanti credono che gli argomenti indiretti possano portare alla liberazione animale o che producano effettivo progresso!