Dawn of the Nugget: non esiste la carne felice
di Giulia Barison
A distanza di 23 anni dall'uscita di "Chicken Run", Sam Fell ne dirige il sequel, "Dawn of the Nugget".
Quando uscì il film di Peter Lord e Nick Park avevo solo sei anni, lo amai, ma non ero in grado di capirne il significato più profondo. Lo riguardai durante i primi anni di università, quando ero già vegana da tempo, e capii che si trattava di un film chiaramente schierato contro il sistema dell'allevamento e del profitto sulla pelle degli animali.
Due estati fa lo guardai una terza volta al festival antispecista di Hambach, quando finalmente avevo gli strumenti teorici per rendermi conto che quella messa in atto dalle protagoniste di "Chicken Run" era resistenza animale.
23 anni dopo, "Dawn of the Nugget" mette sì nuovamente in scena quella stessa resistenza, ma fa molto di più.
In "Dawn of the Nugget" le protagoniste non fuggono da, ma irrompono in un allevamento per liberare le loro compagne dagli aguzzini che vogliono trarre il massimo profitto dai loro corpi e dalle loro vite.
L'allevamento, chiamato "Fun-Land Farm", sembra un vero e proprio paradiso: distese verdi e un sole radioso sempre alto nel cielo. Lì le galline trovano "a new happy ending", lì possono morire felici, anzi: sono loro che accedono autonomamente al macchinario che ne smembra e trita i corpi, per poi trasformarle in nuggets. Ed è così che anche la loro carne diventa felice, e quindi più buona, visto che la paura la rende stopposa e ben diversa da quella "preparata con amore dalla mamma".
Nel frattempo l'allevatrice (la stessa mostruosa allevatrice del primo film, che grida ancora vendetta) trae il massimo profitto, riducendo al minimo i tempi di produzione. Come dice lei stessa: «In tutte le città, in tutte le strade, la gente va di corsa. Persone moderne in un mondo moderno che vogliono cibo, e lo vogliono in fretta! Ed è quello che noi gli daremo, direttamente in un secchio».
Insomma: tutti felici e contenti. O forse no. Perché quelle distese di verde in realtà sono una prigione, e quel sole sempre alto nel cielo è l'entrata verso la catena di smontaggio. E le galline non sono felici e non offrono liberamente se stesse e i loro corpi al palato degli esseri umani, ma vengono soggiogate e controllate da una macchina che ne altera lo stato di coscienza.
La verità, ancora una volta, è che non esiste felicità sotto il capitalismo, e soprattutto non esistono animali felici nel sistema di allevamento.
Quella che mette in scena Sam Fell è la bioviolenza che già oggi caratterizza gli allevamenti. Da una parte l'animale felice nella fattoria, ucciso con amore e basso impatto ambientale; dall'altra l'animale che, grazie alle nuove tecnologie introdotte nell'ambito della zootecnia, può morire senza neanche rendersene conto, rimbambito e contento. La carne felice, insomma, quella che ci propinano costantemente i nostri migliori mercati e supermercati, basti pensare alle imbarazzanti pubblicità della Coop, che dichiara di non uccidere i pulcini maschi, omettendo che lo farà qualche mese dopo, quando diventeranno polli, mentre le madri vengono sfruttate per la produzione di uova.
Il lieto fine del film è ben diverso dal "new happy ending" della Fun-Land Farm: l'allevatrice perde ancora una volta il suo piccolo impero colonialista, sabotato dalle sue stesse prigioniere. E questa volta le galline libere decidono di non nascondersi più sull'isola in cui si erano ritirate dopo la prima fuga: «Nessuna gallina è un'isola». D'ora in poi lotteranno contro il sistema capitalista e specista che vede in loro mera "carne da macello". Non lo sono. Sono individui che lottano e resistono per la loro libertà, e spetta a noi decidere se vogliamo lottare con o contro di loro, se schierarci dalla parte giusta o sbagliata della storia, se per loro vogliamo davvero un lieto fine, quello che ad oggi dobbiamo accontentarci di vedere in un film di animazione, perché la realtà è ben altra.