Da: “Altri versi
- Sinfonia per gli animali a 26
voci”, a cura di Oltre la Specie (2011)
«I campi di lavori forzati non sono poi così male. Ce ne hanno fatto visitare uno al corso di addestramento di base. Ci sono le docce, e letti con i materassi, e attività ricreative come la pallavolo. Attività artistiche. Si possono coltivare hobby come l'artigianato, ha presente? Per esempio, fare candele. A mano. E i familiari possono mandare pacchi, e una volta al mese loro o gli amici possono venire a trovarla». Aggiunse: «E si può professare la propria fede nella propria chiesa preferita». Jason disse, sardonico: «La mia chiesa preferita è il mondo libero, all'aperto» (Philip K. Dick)[1].
Introduzione
Non poche
persone, ai giorni nostri, provano un senso di disagio quando pensano agli
allevamenti intensivi. Questa sensibilità si esprime in vari modi: dal rifiuto
di informarsi su ciò che lì avviene, alla critica esplicita di tale sistema di
produzione, fino alla solidarietà concreta nei confronti delle vittime
(vegetarismo e veganismo etici e militanza per i diritti animali). Malgrado l’opinione
pubblica esprima una crescente disapprovazione verso la reclusione degli
animali all'interno degli spazi angusti ed invivibili degli allevamenti
intensivi, la produzione di carne, latte, uova nei paesi occidentali avviene quasi
esclusivamente in tali condizioni. Le legislazioni dei paesi industrializzati
non recano traccia della sensibilità diffusa contro questo tipo di produzione e
non prescrivono neppure che lo sfruttamento debba essere “moderato”.
Nonostante tutto, l'industria della carne e le istituzioni (che sono speciste e
che partecipano allo sfruttamento degli animali in varie forme) hanno buoni
motivi per monitorare la tendenza dei consumatori a scegliere prodotti
“alternativi”, ossia la propensione dei cittadini ad esprimere istanze
etiche – se non chiaramente politiche – a favore di un trattamento meno crudele
degli animali non umani, fino alla richiesta di abolizione della produzione e
del consumo di carne. Tali istanze, per quanto confuse, si incentrano sulla
critica agli allevamenti intensivi, considerati veri e propri lager per animali, costruiti per una
produzione standardizzata, e alla “catena di smontaggio” dei mattatoi che trasforma
esseri senzienti in numeri senza volto e, infine, in merce[2].
In questa prospettiva di crescente critica dell'industria della carne e dei
derivati, che risposta rappresentano le produzioni di carne biologica, gli
allevamenti “a basso impatto ambientale”, a basso spreco di risorse e tutte
quelle realtà che fanno proprio l'ambiguo concetto di “benessere animale”?
In questo
testo esamineremo alcuni aspetti della diffusione della carne biologica,
“sostenibile”, “equa e solidale”, al fine di coglierne il ruolo nella nascente
dialettica fra sfruttamento e liberazione degli animali. Ciò che sosterremo è
che nessuna critica allo sfruttamento e all’uccisione può essere risolta in una
diminuzione del numero dei morti o dell’entità dello sfruttamento. Non è,
infatti, sufficiente criticare genericamente un fenomeno, bisogna piuttosto far
emergere le contraddizioni che lo caratterizzano, senza minimizzarne la portata
ideologica e, quindi, le sue ripercussioni nella vita reale. Un movimento per
la liberazione animale, consapevole della profondità delle proprie istanze e
delle loro potenzialità, ha il compito di individuare le tendenze del sistema dello
sfruttamento prima che esse si affermino in modo pressoché irreversibile,
svelando e contrastando sul nascere le nuove strategie di dominio. Solo un
atteggiamento di questo tipo può evitare, a chi sostiene la causa animale, di
agire costantemente “al seguito” delle azioni intraprese dagli apparati specisti.
La “carne felice”. Matthew Cole ha ben analizzato il
fenomeno e tutta la falsa retorica del benessere animale, alla luce del
pensiero di Foucault sul potere disciplinare e sul potere pastorale,
esemplificandolo con l’ossimoro “carne felice”[3].
Negli ultimi anni – in Italia e non solo – l’ideologia del consumo etico e
sostenibile della carne animale è stata presentata ai consumatori come
portatrice di nuovi standard di benessere animale, in numerosi ambiti: dallo
sviluppo di una legislazione sugli allevamenti biologici, alla presentazione di
modelli di produzione e consumo contrapposti al sistema industriale; dalle
fiere dei produttori “sostenibili”, alla diffusione delle fattorie didattiche
come strumento di propaganda capillare di una “nuova” visione del rapporto
umano/non umano. L'obiettivo è quello di tacitare le coscienze entro quella che
viene definita, in modo del tutto paradossale, una prospettiva “etica”,
prospettiva che porta in primo piano la necessità di riflettere sul consumo e sullo
spreco delle risorse alimentari. All'interno di questo paradigma, l’animale
perde lo statuto di mera oggettualità (tipico del sistema industriale) per
diventare qualcosa di più di una delle diverse risorse alimentari da tutelare.
L'animale non è più pensato alla stregua di una macchina, come voleva Cartesio,
ma è concepito come un essere vivente da accudire e mantenere in salute: il
benessere che gli abbiamo gentilmente concesso potrà, così, essere trasferito al
consumatore umano nel momento stesso in cui lo divora.
Il
concetto di animale-macchina appare superato e sempre meno credibile agli occhi
dei consumatori occidentali, ogni giorno più critici nei confronti del sistema
di produzione degli allevamenti intensivi. L’istituzione di luoghi (reali e
simbolici) in cui la schiavitù sembra sposarsi, seppur in modo ambiguo, con la
cura, il benessere, l'attenzione alle caratteristiche etologiche e ad altre
esigenze delle specie sfruttate, può fungere allora da valvola di sfogo del
senso di colpa e di frustrazione del consumatore sensibile. Gli allevamenti
biologici, la carne “a basso impatto ambientale”, le fattorie tradizionali a
conduzione familiare, rassicurano le persone, ripetendo loro che è possibile
sfruttare ed uccidere in modo giustificabile. Rassicurano persino le
sensibilità più “avanzate”, sottintendendo che anche chi si batte contro la
schiavitù e l'uccisione tout court dovrebbe felicitarsi della
proliferazione dei “lager etici”, in quanto costituirebbero un passo in avanti nella
direzione della cessazione del massacro. In realtà, tali forme di sfruttamento
sono funzionali al consumo dei prodotti dell’allevamento intensivo che,
nell'immaginario collettivo, iniziano a collocarsi nel limbo di un passato di
barbarie superata o in via di estinzione e nelle pieghe di culture “inferiori”
da convertire ai nostri metodi “più nobili” di reclusione, fecondazione, cura
veterinaria e, infine, macellazione. . Che l’alternativa “bio” sia una pura
illusione è subito chiaro se si pensa alla sua ipotetica realizzazione su scala
planetaria: un'economia basata sul “ biologico”, sull'ampliamento delle gabbie,
sull’alta qualità dei prodotti non sarebbe in nessun modo in grado di sfamare
l’intera popolazione umana.
La
contraddizione di questo recente business,
in cui si pretende di concedere benessere a quegli stessi animali che poi
verranno inevitabilmente macellati (la loro vita è stata resa, tutt’al più, un
po’ più “lunga e tranquilla” rispetto a quella degli animali allevati
industrialmente) è fin troppo semplice da evidenziare. Questo nuovo settore
produttivo cerca di rimodulare il consumo della carne attraverso una
formulazione etica del trattamento degli animali non umani che si risolve, invariabilmente,
nella morte, come sempre dolorosa e brutale, di questi ultimi. Il solo accostare
parole come “felicità” e “carne” rende palese il paradosso in questione.
Accanto alle “guerre umanitarie” e alle “missioni di pace” compare, ora, anche la
“carne felice”.
Sgombrato
il campo dalla brutalità palese e dalla spersonalizzazione della catena di
smontaggio, restano dei soggetti
riconosciuti relativamente come tali e, pertanto, ritenuti addirittura consenzienti,
lieti, cioè, di offrire agli umani più compassionevoli i propri prodotti e di
sacrificare in loro nome i propri figli e il proprio corpo. Li vediamo, così,
ammiccare dalle insegne dei macellai, dai loghi degli allevatori “sostenibili”,
dalle pubblicità dei produttori biologici: maiali che sorridono prima di
diventare prosciutti, mucche che offrono generosamente il proprio latte, pesci
che saltano fuori dall'acqua per gettarsi direttamente in padella, animali che
abbracciano contenti il proprio carnefice.
La strategia scelta dallo specismo
per perpetuarsi è, per certi versi, molto efficace; per altri, presenta qualche
rischio. Quando si ammette che gli animali siano dei soggetti, e pertanto
dotati di esigenze proprie, qualcuno potrebbe trarne davvero tutte le
conseguenze, mettendosi finalmente in ascolto della voce degli oppressi.
Difficilmente, allora, continuerebbe a vedere, in quei corpi straziati e
smembrati, degli animali felici. Si paleserebbe, insomma, l’impossibilità di un consumo etico della
carne: nessuna forma di uccisione e sfruttamento può essere accettata a priori come giusta o giustificabile.
La mortificazione dell’animale, in una prospettiva falsamente etica come quella
della “carne felice”, diventa qui ancora più evidente che nell’ambito del
sistema della macellazione industriale. Riconoscere agli animali il diritto al
benessere (che, anche se ciò viene spesso ignorato, dovrebbe presupporre quello
alla vita) risulta del tutto incompatibile con le pratiche di uccisione e
sfruttamento cui sono sottoposti. Il presunto interesse per la condizione
animale si rivela allora meramente funzionale e strumentale al conseguimento di
vantaggi per i soli consumatori umani: maggior salubrità delle carni, gustosità
incrementata, minor spreco di risorse della collettività, inquinamento ridotto,
ecc. I vantaggi per l’uomo degli allevamenti biologici, che indubbiamente sono
reali, non possono però essere utilizzati per sviare l’attenzione dalla sofferenza
e dall'uccisione di altri individui.
Esiste,
poi, un secondo aspetto della questione, complementare al primo. Se è vero che
l'ideologia della “carne felice” serve a tacitare le coscienze critiche nei
confronti degli allevamenti intensivi (permettendo così di perpetuarne l’esistenza),
al tempo stesso essa reintroduce nella vita quotidiana e nell'immaginario
collettivo degli abitanti urbanizzati dei paesi industriali pratiche
zootecniche di un passato ormai dimenticato. Tali pratiche, presentate come un
progresso nel rapporto con gli animali, provengono da tradizioni contadine e da
sistemi di produzione famigliare, da tempo confinati in aree agricole marginali
almeno per quanto riguarda i paesi occidentali. Il recupero delle piccole
fattorie, del rapporto diretto con i produttori, del contatto con gli animali
da reddito colma una mancanza avvertita in modo sempre più diffuso dai
cittadini inseriti in contesti urbani da almeno un paio di generazioni. Le
persone – come spesso si sente dire – non incontrano più gli animali, non conoscono
la provenienza dei cibi che consumano, non sanno come vivono mucche, maiali,
galline, ecc. Le reti di consumo a chilometro zero, i gruppi di acquisto
solidali (con gli umani!), i progetti di recupero dei piccoli allevamenti, le
fattorie didattiche costituiscono tutti dei tentativi di colmare questa lacuna,
cercando di recuperare, almeno in parte, quanto perduto con
l'industrializzazione. Tuttavia, occorre riflettere su quanto effettivamente è
andato perduto. Per quanto riguarda gli umani ed i rapporti di produzione, è
possibile in effetti che siano scomparse forme di convivialità, di vicinanza,
di produzione “a misura d'uomo” che meriterebbero di essere riprese e valorizzate.
E per quanto riguarda il rapporto con gli animali non umani? Le persone
incontravano effettivamente gli animali, ma li “incontravano” nel contesto di
rapporti di sottomissione e di violenza unilaterale, non certo nell’ambito di rapporti
paritari di reale conoscenza dell'altro. I contadini incontravano gli altri
animali per annullarne esigenze e personalità in un modo ben più concreto di
quanto non faccia il moderno acquirente “da supermercato” che, comprando “animali
inscatolati”, è impossibilitato, almeno fino ad un certo punto, a collegare quella
“merce” che acquista con la sofferenza e la morte da cui deriva. Gli umani
incontravano gli animali – è bene ricordarlo – perché sovente li uccidevano con
le loro stesse mani, dopo averli accuditi per mesi o per anni. Oggi, il
cittadino medio, non sa da dove vengono i cibi che mangia (men che meno sa chi mangia), e soprattutto non sa come
vivono gli animali. Sapere, però, come vivono esseri senzienti rinchiusi in una
fattoria non significa certo sapere come potrebbero vivere se fossero liberi.
L'industrializzazione, allontanando i mattatoi e gli allevamenti dagli sguardi
delle persone, ha reso possibile il consumo smodato di cadaveri, ma al tempo
stesso ha creato le condizioni culturali al cui interno la visione diretta
della morte degli animali e delle brutalità cui sono sottoposti è diventata
insopportabile per buona parte dei consumatori. Tale elemento, grave
contraddizione del sistema di sfruttamento degli animali nel capitalismo
avanzato, si rivela potenzialmente pericoloso. Non è un caso che le istanze
animaliste ed antispeciste siano sorte proprio nei paesi occidentali, in cui è
possibile una presa di distanza dalla morte degli animali come elemento
integrato nella vita quotidiana. É per questo che nei paesi occidentali si
stanno sviluppando tentativi di reintrodurre l’allevamento e l' “uccisione umanitaria”
delle “bestie” nella normale quotidianità. Con le fattorie didattiche, in
particolare, gli abitanti delle grandi città sono incoraggiati a recuperare fin
dalla più tenera età un contatto apparentemente spontaneo e libero con gli
animali e con la loro vita. In realtà, lungi dall'essere libera, la relazione
dei visitatori-consumatori con le future merci è guidata dai produttori. I
carnefici, insomma, decidono gli spazi in cui tale relazione si svolge (spazi
di dominio opportunamente ampliati), le modalità dell’incontro (i tempi e i gesti
del quale sono rigorosamente imposti dall'uomo) e, infine, il suo significato
simbolico (addirittura si danno in adozione, a distanza, animali da sfruttare e
uccidere). Quest'ultimo aspetto assume particolare rilevanza: lo scopo è quello
di reintegrare nella percezione di ciò che è normale l'autorità dello
sfruttatore in una versione paternalistica, la violenza sull'animale e la sua
morte in una modalità “dolce”.
Note conclusive, ossia abolire la schiavitù[4]
Il punto di partenza di ogni riflessione sulle forme di
produzione che coinvolgono in modo massiccio esseri senzienti dovrebbe sempre
essere quello di provare ad adottare la prospettiva di questi ultimi.
Gli animali detenuti negli allevamenti “sostenibili” possono certamente trarre
un relativo giovamento dalla maggior ampiezza delle gabbie, dalla possibilità
di tenere con sé i propri figli qualche giorno in più, forse anche dal
prolungamento della propria vita di qualche settimana. Ma se potessero
scegliere – scegliere veramente, e non optare fra una schiavitù brutale
e una sua versione più edulcorata – sceglierebbero senza dubbio la libertà. In
contrasto con la scelta di finire la propria esistenza in un mattatoio oggi
piuttosto che domani (o persino dopodomani), sceglierebbero di non andarvi mai.
In virtù di tutto ciò, non si vede in che modo questi schiavi potrebbero essere
interessati al minor inquinamento provocato dalle proprie deiezioni o dall’uso
di pesticidi meno tossici, agli indubbi vantaggi del “biologico” per la salute umana
o al miglior utilizzo di acqua, terreno e cereali.
Nessun
animale vuole gabbie più larghe o una vita leggermente più lunga: la prigionia
animale deve essere combattuta senza sconti e senza false ipocrisie. Proprio
per questo, è necessario affermare, senza ambiguità, che il paradigma della
“carne felice” si costituisce come una vera e propria violenza programmatica all’insegna dei buoni sentimenti: il
grottesco interesse per il benessere animale palesa la triste contraddizione in
cui l’umano padrone cade ogni volta che cerca di giustificare la propria
barbarie.
Il compito di chi vuole dare voce agli animali
sfruttati dovrà quindi essere quello di parlare della loro schiavitù
chiedendone apertamente l'abolizione. A tale scopo, sarà allora necessario
denunciare le contraddizioni di un sistema che promuove sempre e comunque il
mattatoio, giustificando la più cruda violenza con la più accettabile
“sensibilità per il benessere animale”. Far risuonare la voce degli sfruttati è
chiedere l’abolizione della schiavitù sia nella versione spietata che in quella
“dolce”, giustificando la prima con la seconda.
[1] Philip K. Dick, “Scorrete
lacrime, disse il poliziotto”, trad. it. di V. Curtoni, Mondadori, Milano,
1998, p.146.
[2]In
questo ambito, il «Movimento per l’Abolizione della Carne»
(www.aboliamolacarne.blogspot.com) rappresenta una delle realtà più
interessanti in quanto contesta indistintamente ogni tipologia di allevamento,
caccia e pesca.
[3]
Matthew Cole, «Dagli “animali macchina” alla “carne felice”. Un’analisi della
retorica del “benessere animale” alla luce del pensiero di Foucault sul potere
disciplinare e quello pastorale», trad. it. di M. Filippi, in «Liberazioni», n.
3, 2010, pp. 6-27.
[4] Per seguire gli sviluppi del progetto di contestazione degli
allevamenti biologici, cfr. www.bioviolenza.blogspot.com.