Fonte: Earth Riot
Apri la bocca, chiudi gli occhi… voltati mentre li uccidiamo!
Manca solo quest’ultima parte al video promosso dall’associazione
Compassion in World Farming Italia in merito alla campagna “Non nel mio
piatto” lanciata di recente e mirata a sensibilizzare il consumatore
sulle condizioni degli animali negli allevamenti intensivi attraverso un
lavoro di ipocrisia e la strumentalizzazione di termini privati di ogni
significato e valore, come “sostenibilità” e “benessere animale”.
L’associazione
C.I.W.F., fondata nel 1967 da un allevatore di mucche da latte, è nata
al preciso scopo di dare la possibilità agli allevatori di autoregolarsi
senza dover dare spiegazioni sulle tecniche impiegate negli allevamenti
animali.
In questi ultimi anni C.I.W.F. sta conducendo un lavoro di
disinformazione, promuovendo concetti quali “carne felice” o “benessere
animale” nel tentativo di far credere al consumatore che queste siano
pratiche realmente a favore della libertà e della vita degli animali.
Ma
in realtà si tratta solamente dell’ennesimo organo volto a certificare e
tutelare gli interessi di chi produce a discapito di chi diventa
prodotto, alimentando quel meccanismo che nasconde al consumatore la
verità sulla produzione di carne e derivati animali.
Un aspetto
confermato dalla lista delle aziende premiate tra le quali compaiono
nomi illustri come Amadori, Cremonini, Barilla, Coca Cola, McDonald’s, KFC, Burger King e molti altri, che dello sfruttamento animale,
ambientale e sociale hanno fatto il loro personale marchio di fabbrica.
Sulla pagina del sito di Compassion in World Farming Italia,
dedicata alla campagna “Non nel mio piatto”, viene utilizzato un
approccio e terminologie che si accostano molto a quelle utilizzate da
chi lotta per la liberazione animale, quasi volessero convincere gli
stessi
attivisti a unirsi a ciò che loro identificano come “movimento”.
Per
convincere il lettore a unirsi alla loro campagna utilizzano
strategicamente le stesse motivazioni sulle quali l’attivista
antispecista punta il riflettore da decenni: deforestazione, impatto
ambientale, fame nel mondo, aggiungendovi la salute del consumatore.
La
campagna e l’associazione C.I.W.F. però non portano avanti un pensiero
animalista né tanto meno antispecista, e questo si può facilmente
intuire già dalla riga del loro sito quando domandano al consumatore, e
forse anche a loro stessi, “sappiamo cosa
mangiamo?”.
Un’espressione
specista, in quanto identifica l’animale macellato per la produzione di
carne e derivati esclusivamente come bene di consumo, i cosiddetti
“animali da reddito”, mentre la domanda che tutti dovremmo porci è: “sai
chi mangi?”.
Questo approccio è funzionale a rafforzare il concetto
di “delega” che porta il consumatore a condurre i propri acquisti senza
alcun senso critico, ignorando o volendo ignorare la sofferenza di un
animale destinato ad essere ucciso per le tasche dei produttori e la
pancia di chi compra.
Sempre sul loro sito si fa leva su come la
sofferenza animale sia una catastrofe per noi e per il Pianeta ma non
per l’animale stesso, a sottolineare che il solo obiettivo di C.I.W.F. è
quello di spostare i consumi di carne e derivati animali dagli
allevamenti intensivi a quelli secondo loro maggiormente sostenibili, ma
che comunque prevedono il sacrificio animale, facendo credere al
consumatore che esista la “carne felice”.
Spiegare quali siano i
reali interessi di questa associazione fondata da allevatori del resto è
molto semplice, e possiamo farlo attraverso le parole di Nino
Florenzano, una delle persone ad aver collaborato alla realizzazione
della campagna, che sul suo profilo Facebook lo scorso 21 gennaio ha
risposto a una domanda scrivendo:
“Il problema non è tanto il fatto che finiscano nei nostri piatti, ma le sofferenze inutili cui sono sottoposti in vita“
In sintesi, continuiamo pure a ucciderli per il profitto e il consumismo, ciò che conta è che prima ricevano tante carezze.
Il
concetto di “benessere animale” sostenuto e diffuso da C.I.W.F. come da
Coop, Amadori, Slow Food etc., è privo di ogni significato e punta solo
a salvare una produzione che per queste aziende è vitale, spingendo sul
tasto che l’animale è contento di esser macellato se prima ha potuto
condurre una vita, nonvita, potendo vedere un po’ di più la luce del
sole rispetto a chi viene rinchiuso in un allevamento intensivo.
Ma
sempre di schiavitù si tratta, di una nonvita al servizio dell’uomo,
privati di ogni soggettività nell’attesa di venire sacrificati.
Il video realizzato da C.I.W.F. per promuovere la campagna “Non nel mio piatto”
non è diverso da un qualsiasi spot pubblicitario, nel quale dichiarano
che “nessuno ti mostra la verità degli allevamenti intensivi”, quasi
volendo prendersene il merito, ma senza mostrare l’atto
dell’uccisione, e ignorando che quella verità è stata svelata ormai da
anni grazie alle indagini svolte da molti gruppi animalisti.
Il video
poi si chiude con la frase “battiamoci insieme per un’alternativa
etica”, e per i guadagni personali di C.I.W.F. aggiungiamo noi,
considerando che i primi e unici beneficiari di uno spostamento dei
consumi sarebbero loro stessi.
Parlare di “alternativa etica” è
sbagliato; è necessario piuttosto sviluppare un pensiero nonviolento che
rifiuti la schiavitù e il sacrificio degli animali, alimentando il
rispetto verso chi dovrebbe poter vivere il libertà su di un Pianeta che
la offre a tutti/e, senza distinzioni di specie.
Il solo concetto di
“benessere animale” accettabile è quello che prevede la liberazione
degli stessi, un processo che non si può ottenere a piccoli passi perché
è a causa di questi piccoli passi e del “sempre meglio di niente” che
ora esistono associazioni come C.I.W.F., che tentano di mischiarsi con
l’animalismo e l’antispecismo, svuotando di ogni valore la lotta che
molti tentano di condurre.
Solo per il fatto di essere utilizzato da
aziende simbolo del capitalismo, del consumismo, dello sfruttamento
globalizzato, il concetto di “benessere animale” perde di ogni
significato, diventando l’ennesima mossa di marketing volta al non
perdere vecchi consumatori e all’accaparramento di nuovi.
Il
“benessere animale”, come realmente deve essere concepito, esiste, ma al
di fuori dei circuiti appartenenti al dio denaro, e prende la
definizione più consona di “liberazione animale”. Quella liberazione
animale condotta nel lato pratico da rifugi-santuari, come ad esempio Agripunk e Ippoasi,
che si preoccupano di offrire una seconda vita a chi è stato salvato
dal macello, tutelando gli animali non umani in un ambiente protetto per
impedire che cadano nuovamente vittime del sistema specista.
Nell’attesa di una terra resa nuovamente libera da cemento, industrie e
devastazione, e da quelle forme di dominio e prevaricazione figlie di un
pensiero antropocentrico che determina chi è degno di vivere in libertà
e chi invece in attesa di essere giustiziato.
Perché il quesito che
tutt* dovrebbero porsi prima o dopo non è cosa mangiamo, e neanche chi
mangiamo, ma piuttosto: come vivrebbero gli animali se non fossero
schiavi del genere umano?”
Earth Riot (convivenza pacifica)
"I campi di lavoro forzati non sono poi cosi' male. Ce ne hanno fatto visitare uno al corso di addestramento di base. Ci sono le docce, e letti con i materassi, e attività ricreative come la pallavolo. Attività artistiche. Si possono coltivare hobby come l'artigianato, ha presente? Per esempio, fare candele. A mano. E i familiari possono mandare pacchi, e una volta al mese loro o gli amici possono venire a trovarla - Aggiunse: - E si può professare la propria fede nella propria chiesa preferita.
Jason disse, sardonico: - La mia chiesa preferita è il mondo libero, all'aperto." (Philip K. Dick)
lunedì 8 febbraio 2016
La favola della carne felice
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