L'eredità di Expo: sostenibilità, nuovi mercati, benessere animale
Forse incantati dal bellissimo slogan “Nutrire il pianeta”,
forse storditi dalla partecipazione di Vandana Shiva al padiglione del bio,
forse addomesticati dall’ondata bio-vegan seguente ci siamo un attimo scordati
di EXPO 2015 e
soprattutto ci siamo dimenticati di considerare e analizzare la sua eredità.
Lo spezzone antispecista, caduto nel dimenticatoio con tutta
la contestazione “no expo”, dov’è finito?
Ma, soprattutto, quanti di noi si sono accorti che da EXPO
in poi gli attacchi all’industria alimentare sono stati lasciati andare solo in
alcune direzioni?
Quanti sono andati avanti senza soffermarsi troppo sulla
parola “intensivo”?
Il sorgere di numerose attività e associazioni di categoria
includenti le parole “etico”, “sostenibile”, “verde”, “slow”, “felice” ha fatto
gioire pazzamente numerosi individui.
L’idea di non dover rinunciare a nessun agio perché così si
può non essere più complici di aziende che rovinano il pianeta e chi ci vive,
ci ha inebriato di speranza, in vista di un reale cambiamento, che comprende
anche un cambio di direzione per quel che riguarda il rispetto per l’animale
non umano.
Il che sarebbe ipoteticamente vero, forse, se fossero sorte
nuove aziende, cooperative, artigiani “etici-per-davvero” che quindi che non
contribuiscono a nessuna forma di sfruttamento e si fosse tornati ad una
produzione (vegetale) estensiva, minima, sostenibile per davvero.
Il tutto accompagnato da riduzione e ridimensionamento dei
nostri consumi, unite alla presa di coscienza del semplice fatto che noi stessi
consumiamo troppo e pretendiamo troppe cose inutili ma che ci convinciamo
essere essenziali per vivere.
Siccome l’abitante umano medio contemporaneo di questa terra
non intende cambiare di una virgola lo status quo, questo non è successo. Anzi,
popolazioni intere hanno aumentato i propri consumi grazie ad un benessere apparentemente
incrementato dai nuovi mercati.
Quindi, per rattoppare la situazione, qualche anno prima di
EXPO i “potenti” si sono riuniti varie volte ed hanno convenuto che non si
poteva provvedere a soddisfare i (reali?) bisogni di tutta la popolazione del
pianeta continuando a farlo con noncuranza e senza considerare gli effetti
collaterali.
Ma non potevano nemmeno ammettere che questi consumi in
verità andavano ridimensionati a livello globale, poiché ciò sarebbe andato a
scapito delle multinazionali coinvolte.
Il “greenwashing”, quindi, sembrava la soluzione migliore
anche perché attuabile in questo preciso momento ed è di questo che hanno
discusso ad EXPO, decidendo i cambi di rotta “sostenibili” e ridefinendo
l’import-export, sfruttando le discrepanze di regolamenti tra paese e paese..
Il “greenwashing” applicato all’allevamento è l’allevamento
sostenibile, etico, la carne felice. Come se l’unica cosa importante fosse in
che condizioni arrivano gli animali al mattatoio e non viene mai messo in
discussione il fatto che ancora ci arrivano al mattatoio.
Considerando anche che un animale allevato meglio sarà la
base di un prodotto migliore… sarà la base di un’eccellenza di un territorio.
Per quel che riguarda l’export di suini, la Cina ha
acconsentito a riaprire i mercati con l’Italia.
Passata l’emergenza Vescicolare (malattia dei suini), le esportazioni
di carne di maiale verso la Cina sono riprese alla grande, considerato che la
Cina acquista il 48% del suo fabbisogno dall’Europa.
Per ora l’apertura è limitata solamente ad alcune Regioni,
però sicuramente in via di ampliamento.
L’Italia punta al mercato delle eccellenze, ma alcune
eccellenze sono frutto di tradizioni e lavorazioni particolari che richiedono
cambiamenti e regole ferree per essere tali e che nell’allevamento etico
trovano di sicuro terreno fertile per essere più credibili.
Riuscendo poi a bypassare alcune restrizioni al commercio di
prodotti tradizionali dovute alla particolare lavorazione di certi prodotti
(non perfettamente in sintonia con il pacchetto igiene e quindi potenzialmente
non accettata dal mercato extra-comunità europea) o a seguito delle varie
restrizioni al commercio di certe carni a causa appunto delle emergenze
sanitarie (aviaria, peste suina, bse ecc.) il tutto tramite deroghe e altre direttive
ad hoc, grazie alla nuova apertura ai mercati internazionali, un prodotto
particolare può viaggiare tranquillo in tutto il mondo, magari grazie ad un
Presidio Slow Food o a qualche altra certificazione sorta nel frattempo.
Un esempio può essere il nuovo marchio Nebrodi Sicily,
voluto tra gli altri proprio anche da Slow Food, per la valorizzazione dei
salumi prodotti tramite macellazione di suini neri dei Nebrodi.
Questa operazione è stata lanciata in grande stile, con
l’arresto di 33 tra macellai, allevatori e funzionari asl coinvolti in macellazioni
clandestine... guarda caso proprio un paio di giorni prima della presentazione
del marchio.
Con questo marchio, quindi, la carne di suini semiselvatici
allevati in un parco nazionale e lavorata in maniera tradizionale (senza
automazioni) ma comunque monitorata e controllata dagli enti preposti, può
tranquillamente essere esportata in ogni parte del mondo.
Non sarebbe più logico e ragionevole evitare ogni forma di
macellazione ed allevamento in un parco nazionale?
Non avrebbe più senso preservare la fauna selvatica e
semiselvatica del posto smettendola di macellare i pochi animali che hanno
ancora la fortuna di nascere liberi?
Altro esempio di come le negoziazioni e gli accordi posso
aiutare.
Immaginiamo di essere un grosso produttore di carne che
rifornisce a livello europeo una nota catena di fast food la quale mi chiede
sempre più hamburger, e che nel contempo ha anche cambiato il colore del suo
logo da rosso a verde perché ora usa i pannelli fotovoltaici e dice di usare materie
prime “sostenibili”.
Per prima cosa, dobbiamo anche noi diventare sostenibili,
essendo fornitori delle suddette materie prime. Ci inventiamo quindi un
“consorzio” sostenibile; lo facciamo accettare dimostrando come la produzione di
carne consumi ed impatti quanto quella di verdura, creando la “Clessidra alimentare”.
Poi assorbiamo tutte le stalle della zona, in modo da avere
un’enorme quantità di mucche e vitelli a nostra disposizione.
Facciamo uscire i suddetti animali a mangiare erba un’ora al
giorno; per non inquinare molto creiamo i due macelli e impianti di
trasformazione più grandi d’Europa e sostenibili grazie al biogas (quindi
ricicliamo pure il letame) e diventiamo un enorme colosso del benessere
animale, dell’ecologia, della sostenibilità.
Però abbiamo la possibilità di avere altri mercati fuori
dall’Europa, perché probabilmente questi fast food sono anche in altre parti
del mondo e vogliamo rifornire anche quelli… e allora apriamo un altro mega
macello in Russia, dei mega-allevamenti in Medio Oriente e Africa, entriamo in
partnership con aziende e allevamenti nord e sud americani. Così possiamo
muovere allegramente i nostri tentacoli in giro per il mondo con controlli
molto limitati approfittando della disparità delle normative e dei controlli
tra paese e paese.
Forse già ora riuscite a capire che non c’è molto da
sorridere, se avete capito di chi stiamo parlando… e sì, il fast food in
questione è lo stesso che ha tenuto banco nei mesi dell’EXPO per il panino
dedicato all’India, ossia vegetariano.
A me che scrivo, personalmente, sembra ci stia sfuggendo di
mano il senso delle cose.
Come siamo arrivati a tutto questo? Ad esempio, ignorando le
politiche internazionali perché “agli animali non interessa nulla della politica”.
Limitandoci a pensare all’animale come un essere indifeso da
commiserare, limitandoci a pensare che nell’allevamento intensivo stà peggio
che dal contadino, limitandoci ad un protezionismo che ci ha portati ad andare
in piazza vestiti da mucca magari senza nemmeno averne conosciuta una prima e
pensando che starebbe bene nel giardino di casa.
Immagini di agnelli con il pannolino, vitelli sul divano,
maialini che mangiano dal tavolo, caprette alle quali si lascia leccare
qualsiasi avanzo dal nostro piatto.
Ci siamo inchiodati al voler salvare gli animali per
trattarli come bambini ossia come cuccioli che non sanno vivere senza le cure e
la presenza di una sorta di figura materna umana.
L’immagine che diamo di loro è di eterni bambini, sempre
cuccioli come se non crescessero mai ma restassero sempre a misura di coccola.
Tutte cose che l’industria ha sfruttato per distrarci e per
attuare delle misure che per noi sono ancora ignobili ma che all’occhio del
consumatore medio sembrano migliorie meravigliose.
E’ vero che con il passare assillante di immagini di animali
incatenati, compressi, sporchi, affamati molte persone si sono fatte un’idea
triste e malsana degli allevamenti intensivi, ma è anche vero che a volte la
nostra visione distorta ed antropocentrica del rapporto con l’altro animale
sembra eccessiva, malata e stupida.
La via di mezzo accettabile è la mucca al pascolo, la
gallina che razzola, il maiale che sgrufola.
Non importa se lo fa solo per un’ora al giorno, o se insieme
a lui ci sono altri 1000 che lo fanno, non importa se comunque verrà ucciso
prima che il suo tempo si sia compiuto.
La pietà per l’animale, quel sentimento che porta a dire “poverino,
ma come vive?” ma che porta anche a dire “se lo tratto bene alla fin fine muore
dopo aver vissuto una bella vita”. È
la compassione che induce a dare un sorso d’acqua agli animali che vanno
al macello, come se a loro che vanno a morire importasse molto di noi con la
bottiglietta in mano, ponendoci il problema di quanto viaggiano e in che
condizioni viaggiano, senza porci il problema della loro vita precedente, del
viaggio stesso e della sua destinazione.
Questo è quello che sento quando mi rapporto con persone che
“amano gli animali”.
Il concetto di amore è relativo, settoriale e soggettivo.
Amano quel maiale specifico ma posso tranquillamente
mangiare un pezzo di un altro maiale.
Non si rischia che le persone sapendo che un maiale è
trattato bene in un allevamento, arrivino ad accettare di mangiare proprio quel
maiale?
E questo già accade, purtroppo e forse succede dalla notte
dei tempi visto che anni fa chi voleva mangiare carne doveva cacciare o
allevare ed uccidere da se i propri animali… pur amandoli anche se in maniera
distorta.
Io non amo gli animali, li rispetto infinitamente e per loro
auspico una vita piena di libertà con tutti i suoi pro e i suoi contro ovvero
una vita davvero degna di essere vissuta.
E mi rendo conto che è sempre più difficile toccare la
sensibilità della gente per far capire loro questo mio sentimento.
E lo è grazie a queste nuove strategie pseudo-animaliste
adottate dalle industrie nel nome della foga di sfamare il pianeta senza condannarlo
al collasso definitivo ma ignorando ancora una volta la sorte degli schiavi.
La vera eredità di EXPO è
questa, in sunto.
Rimangono i poteri forti di
prima, però tutti si devono adeguare e devono cercare di fare qualcosa per
migliorarsi per soddisfare questa nuova direttiva che ci salverà tutti.
Molti di questi soggetti sono
stati aiutati, in questo opera di “ripulitura” della propria facciata, dalla
solita simpaticissima CIWF e da altre organizzazioni ambientaliste ed
animaliste internazionali (ad es. WWF e Humane society) che hanno studiato le
problematiche dell’allevamento e le regole chiave del benessere animale per
suini, bovini, polli.
Altre organizzazioni ed enti
che lavorano per le scienze zootecniche hanno insegnato agli allevatori come
applicarle, alcuni veterinari hanno studiato le cure alternative, altri hanno
richiesto nuove etichettature, certificazioni, presidi, marchi e tutto il
necessario per dare alle persone compassionevoli una carne buona sotto tanti
punti di vista… sostenibile, etica, consapevole, felice.
A me pare però che manchi una
consapevolezza fondamentale, ossia la consapevolezza che in tutte queste nuove
terminologie e tecnologie ci si dimentica sempre che si sta parlando di
individui che nascono, soffono, fuggono, comunicano.
E che noi continuiamo a non
ascoltare, credendoli muti e nelle nostre mani, anche nella salvezza.
L’idea che alcune
organizzazioni abbiano contribuito a migliorare le condizioni di allevamento
anziché contrastare l’allevamento stesso non mi fa dormire la notte.
Qualcuno potrebbe dire che è
un passo avanti, che eliminare tout court l’allevamento è un’utopia per ora
irrealizzabile e che quindi bisogna accontentarsi e dare riconoscenza a queste
aziende che per pietà ora trattano meglio gli animali che allevano e che
producono anche prodotti vegetariani o addirittura vegani.
Proprio perché rispetto
l’animale non posso solidarizzare con queste aziende.
Perché quello che per loro
sono solo numeri e kg, per me sono persone, sentimenti, personalità, furbizia.
Non può esistere alcuna
solidarietà nei confronti di chi rinchiude e riduce in prigionia un individuo
qualsiasi, nemmeno se la prigione in questione è un allegro campo dove
pascolare o zappare.
Nessun prato verde o florida
vigna, nessun ombroso frutteto o solare uliveto possono assomigliare
minimamente a quello che è la completa libertà, se la finalità nascosta è lo
sfruttamento, sempre e comunque.
Una prigione è una prigione,
una gabbia è una gabbia, un allevamento è un allevamento.
Dez
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Fonti:
Carni sostenibili ed EXPO
Adozioni animali da fattoria
Export
suini
Mercati internazionali
Marchio Nebrodi Sicily
Macelli e allevamenti Inalca nel mondo
CIWF studi
Humane society studio
WWF, CIWF e HS in Agenda per bestiame sostenibile