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Animal
welfare: uccidere con gentilezza
(rielaborazione dell'intervento di BioViolenza alla conferenza sul benessere animale, Salone del Gusto 2012)
Un punto di vista particolare?
Il Progetto BioViolenza è nato due
anni fa, con l’intento di affrontare il tema degli allevamenti biologici,
ecologicamente sostenibili, attenti allo spreco delle risorse e ai diritti dei
lavoratori. Per questo, si può dire che ci interroghiamo da un po’ di tempo sul
cosiddetto “benessere animale”, l’oggetto della conferenza di oggi[1].
Abbiamo chiesto quindi a Slow Food, che ha accettato, di venire qui a proporre
alcune considerazioni. Il punto di vista da cui affrontiamo tale tema è un
punto di vista particolare. O meglio: si tratta di un punto di vista che sembra
particolare, ma che dovrebbe essere, secondo noi, quello principale. Dovrebbe
essere normale far partire da qui ogni riflessione al riguardo. E’ un punto di
vista che in questa conferenza è stato marginale, ma che è affiorato a tratti
in più di una relazione. Si tratta del punto di vista degli animali allevati.
Il punto di vista degli animali è
centrale anche soltanto per motivi quantitativi: gli animali sono gli attori
più numerosi nei processi di produzione alimentare di cui parliamo oggi. Se
guardiamo alle cifre, almeno 40 miliardi di non umani all’anno perdono la vita
per fornire cibo agli umani. Una stima dei pesci uccisi nel mondo ci
restituisce un numero ancora più impressionante[2].
Ma non si tratta solo di quantità, anzi: è il ruolo di questi attori che è
centrale, dato che sono loro a fornire una serie di “oggetti” o di prestazioni
per produrre cibo. In modo sommario, possiamo dire che forniscono i propri
corpi, che diventano carne, e le proprie funzioni riproduttive, da cui traiamo
diversi generi di prodotti (principalmente, uova, latte e latticini). E’ sugli
animali, non a caso, che ricadono le scelte degli allevatori, dei veterinari,
degli etologi, degli economisti, dei legislatori. Per noi, provare a
considerare il loro punto di vista significa, da una parte, immedesimarci con
loro, chiedendoci che cosa provino, quali siano i loro sentimenti, i loro
bisogni, le loro esigenze; e questo è un tipo di sforzo che i presenti,
allevatori e specialisti, non faticheranno a comprendere a partire dalla loro
esperienza. D’altra parte, ci chiediamo come potrebbero considerare – gli
animali non umani – i nostri discorsi sulle pratiche di allevamento, ed in
particolare i nostri discorsi sul benessere animale. Questi dibattiti sono,
infatti, dibattiti tutti umani, sviluppati fra umani e per umani.
Benessere animale: uno strano tipo di welfare
Il benessere animale può far
pensare – anche come parola – al welfare umano. Il nome stesso – animal
welfare – lo suggerisce. In particolare, viene in mente in qualche modo il welfare
in ambito lavorativo, le questioni relative ai diritti dei lavoratori. Il welfare
in questo caso è un’attività di regolamentazione della produzione e un discorso
sulle attività produttive che presuppone che lavoratrici e lavoratori non siano
semplici “strumenti”, ma individui dotati di esigenze proprie innegabili, esigenze
spesso in conflitto con le esigenze produttive. Nonostante tutto, però, questa
analogia lascia perplessi, ed il motivo è sostanzialmente uno. A differenza di
quello umano, il welfare animale è un dispositivo di regolamentazione
del lavoro i cui supposti beneficiari non sono stati consultati. Qualcuno dirà
che questo avviene perché non è possibile consultarli, per limiti di specie e,
in ultima analisi, di comunicazione. Gli allevatori che sono qui, ma anche gli
specialisti che hanno parlato – etologi e veterinari – sanno bene che non è
esattamente così, perché esiste la possibilità di ascoltare le loro esigenze,
ovviamente. Noi pensiamo che, proprio per questo, la peculiarità del welfare
animale derivi da un altro fatto. Il paragone non regge, in realtà, perché qui
non si tratta di lavoro, ma di schiavitù. Certamente, una schiavitù intorno
alla quale esiste una crescente compassione dell’opinione pubblica verso gli
schiavi, ma pur sempre una schiavitù. E in effetti gli schiavi non vengono
consultati.
Kill with kindness
Prima dei discorsi sul benessere,
esiste comunque una serie di regole e di principi sanciti dalle istituzioni.
Vorremmo analizzarle brevemente dalla prospettiva di un animale da allevamento.
Parte della normativa sul benessere animale si rivela estranea a questa
compassione timida ma crescente. L’agricoltura biologica, in particolare,
prevede delle regole di certificazione che incrementano il benessere degli
animali, ma – spesso dichiaratamente – per avvantaggiare la salute dei consumatori,
la qualità dei prodotti, la sostenibilità ambientale[3].
Il vantaggio per gli animali è quasi sempre un fatto accidentale, una specie di
effetto collaterale. Nei pochi casi in cui l’obiettivo dichiarato è la
riduzione della sofferenza animale, ciò avviene nella misura in cui non si
interferisce con le esigenze dei produttori e dei consumatori.
Diverso è il caso – oggi
ampiamente illustrato – della protezione degli animali da reddito da parte di
una serie di norme europee e di una serie di progetti locali che tendono ad
incrementare il benessere animale a partire dalla considerazione dell’animale
come essere senziente. Oggi, infatti, nessuno può più considerarsi a pieno
titolo cartesiano: gli animali non sono più macchine, ma soggetti in grado di
soffrire e gioire in modo analogo a noi (che, del resto, siamo animali). Per
chi intrattiene – la maggioranza dei cittadini – una relazione con un animale
“da compagnia”, un cane o un gatto per esempio, questa è ormai una banalità,
entrata a tal punto nel vissuto dei membri della società umana che se ne è
accorta persino l’Unione Europea. A tal proposito, l’art. 13 del Trattato di
Lisbona, poco fa citato da Andrea Gavinelli (Commissione Europea), parla di
“senzienti” [4].
E lo stesso relatore ha fatto riferimento alle “cinque libertà”, di cui abbiamo
già avuto modo di parlare in passato[5].
La Direttiva 98/58 dice una cosa
molto interessante: “nessun animale deve essere custodito in un allevamento se
ciò nuoce alla sua salute o al suo benessere”[6].
Ancora, cerchiamo di interpretarla come se fossimo non gli allevatori, bensì
gli allevati. Se mi dicessero che non devo essere privato della libertà,
rinchiuso in una gabbia o in un recinto qualora nuocesse al mio benessere,
penso che avrei le idee chiare al riguardo. Direi che non devo mai
essere “custodito” in un allevamento. Essere recluso in un allevamento
nuocerebbe sempre al mio benessere, è ovvio. A dirla tutta, mi farei anche
qualche domanda su questa parola, “custodito”. “Custodire” richiama l’idea di
protezione, di cura. Si tratta di elementi che pur possono esistere
nell’allevamento, ma è chiaro che qui si intende un altro tipo di
custodia, che a me ricorda piuttosto la pratica della custodia carceraria.
Forse chiederei di essere un po’ più onesti e chiamarla semplicemente
reclusione. Ma sulle vostre parole avrei vari appunti da fare. Poco fa, uno dei
relatori[7]
ha spiegato che il suo programma di introduzione del benessere animale in un
piccolo allevamento brasiliano ha portato ad un calo della mortalità dei bovini
da una percentuale (il 60%) ad un’altra (il 30%). Io penso invece che il tasso
di mortalità sia costante, sempre intorno al 100%, dato che la fine di noi
animali è sempre il macello. E a proposito, consentitemi di tornare sulla frase
di cui sopra: “nessun animale deve essere custodito in un allevamento se ciò
nuoce alla sua salute o al suo benessere”. Visto che si afferma di non voler
nuocere alla mia salute, per non nuocere alla mia salute chiederei di non
essere macellato. Non di essere macellato un po’ più tardi, o previo
stordimento, o da qualche sostenitore della “morte dolce”[8],
ma proprio di non essere mai portato al mattatoio.
Progetto BioViolenza
Al mattatoio sani e felici
[1]
Il testo è una rielaborazione dell’intervento fatto dal Progetto BioViolenza al
Salone del Gusto / Terra Madre 2012, durante la conferenza su “Benessere
animale: una tutela anche per produttori e consumatori” (29 ottobre 2012,
Torino)
[2]
Le stime dei pesci uccisi sono di circa mille miliardi (http://fishcount.org.uk fornisce un
criterio scientifico per il calcolo del numero degli individui pescati, che nei
dati ufficiali sono espressi a peso).
[3]
Cfr.: http://www.aiab.it/index.php?option=com_content&view=category&layout=blog&id=18&Itemid=19;
e,
in particolare, il D.M. 8 febbraio 2010 (http://www.aiab.it/media/normativa/D.M.%208%20Febbraio%202010.zip).
[4]
“Nella formulazione e nell’attuazione delle politiche dell'Unione nei settori
dell’agricoltura, della pesca, dei trasporti, del mercato interno, della
ricerca e sviluppo tecnologico e dello spazio, l'Unione e gli Stati membri
tengono pienamente conto delle esigenze in materia di benessere degli animali
in quanto esseri senzienti” (http://europa.eu/lisbon_treaty/full_text/index_it.htm).
Si
veda anche: http://ec.europa.eu/food/animal/welfare/index_en.htm.
[5] Cfr. “Cinque
libertà: tanto rumore per nulla” (http://bioviolenza.blogspot.com/2012/08/cinque-liberta-tanto-rumore-per-nulla.html).
[7]
Mateus Paranhos Da Costa, docente di etologia e benessere animale, Università
di São Paulo – UNESP.
[8]
L’espressione (kill with kindness) si riferisce a quanto sostenuto
durante la sua relazione da Richard Haigh, Presidio Slow Food della pecora
Zulu. Si noti che la traduzione proposta da Slow Food, “morte dolce”, contiene
in sé un’ulteriore slittamente semantico, richiamando per il pubblico italiano
il concetto di “eutanasia”.