L'INGIUSTIZIA DEL "CIBO
GIUSTO"
Noi non sappiamo quello che dirà
Latouche, sappiamo solo che, al termine, ci sarà un aperitivo a filiera corta
con vari prodotti tra cui ricotta, prosciutti, salami, coppe…
“Il cibo giusto”. E’ proprio il
titolo di questo incontro che colpisce, che punta il dito sulla questione
basilare e nello stesso tempo, con plateale indifferenza, la ignora, la
mortifica, la annichilisce.
Sì! Perché la questione del cibo
è proprio legata alla giustizia. Prendere qualcuno e renderlo cibo, renderlo
prodotto, renderlo merce significa dimenticare il proprio simile animale,
significa relegarlo a qualcosa che posso usare, sfruttare, manipolare e gestire
come una risorsa, come un attrezzo, come un bene. Significa anche e soprattutto
ignorare (o fingere di ignorare!) che ad essere usato, imprigionato, gestito,
ingrassato e ucciso è un individuo dotato di coscienza, pensieri, sensibilità,
intelligenza.
Noi tutti sappiamo che cos’è
un’ingiustizia. Forse non tutti riusciamo a definirla in modo corretto e
impeccabile, ma per il solo fatto di essere in questa civiltà, sappiamo di cosa
si tratta, lo sappiamo per averla subita, per averla vissuta, per averla vista
applicare su chi abbiamo intorno. Quando vedi un’ingiustizia ne senti il peso
e, un po’, ti ribolle il sangue e vorresti agire, reagire. Questo accade perché
sai che anche quella, come tutte le altre ingiustizie, potrà proliferare, potrà
sopravvivere ed espandersi proprio grazie alla tua indifferenza. E’ strana
l’ingiustizia! Non ammette neutralità. O ti schieri contro o, in automatico,
stai favorendo il carnefice, colui che la vuole applicare, colui che se ne sta
avvantaggiando.
Lo specismo, quella complessa e
millenaria ramificazione di condizionamenti che ci portiamo addosso, consente
incredibili scappatoie, permette, ad esempio, di parlare di giustizia, proprio
mentre si sta festeggiando sul cadavere di un individuo a cui è stata tolta
libertà, un individuo che è stato tenuto rinchiuso, un individuo a cui è stato
impedito di vivere secondo le proprie aspettative, la propria indole, il
proprio modo di percepire e interpretare la realtà. La giustizia, allora, viene
rinchiusa in un rigido compartimento. Il cibo è giusto se è buono e mi fa bene.
Il cibo è giusto se è autoprodotto. Il cibo è giusto se non entra al
supermercato, se non è confezionato, se ha la filiera corta. Il cibo è giusto
finchè l’asse del ragionamento riesce a mantenersi saldo e prepotentemente
ancorato all’umana superiorità, ad una visione del mondo in cui chi è diverso è
anche situato su un gradino più in basso. Un tempo, su quel gradino più in
basso (ma ancora oggi), ci stavano gli schiavi umani. Fornivano lavoro giusto
perché tanto erano “quasi umani” e naturalmente destinati ai lavori imposti,
erano diversi da noi. Un tempo (ma ancora oggi) ci stavano le donne. Inferiori,
usate, sfruttate. E chiaramente l’elenco di chi veniva e viene posto su un
gradino più in basso si potrebbe allargare a gay, lesbiche, trans, intersex,
rom e a tutte le categorie rese oggetto, feticcio, categorie ridicolizzate
perché diverse dallo stereotipo condiviso, diverse da ciò che evade dal modello
dominate. Gli esempi sono tanti e ciascuno ha diverse sfumature e
caratteristiche, ma quello che conta è l’asse portante, perché in tutti i casi
la dinamica che giustifica e fortifica l’ingiustizia è sempre uguale. Il
diverso può essere usato, dominato e discriminato. Il diverso è una risorsa che
può essere gestita e controllata per i nostri personali interessi.
Lo specismo consente di tenere un
comportamento giusto ed etico pur continuando a sfruttare e a discriminare in
modo sistematico e consapevole chi è diverso, pur continuando a togliergli la
libertà, pur continuando ad impedire all’altro da sé di vivere le proprie
speranze, di realizzare le proprie attitudini, i propri desideri. Lo specismo è
comodo e, soprattutto, indispensabile a mantenere la status quo. Basta
dimenticare chi ha un corpo diverso, basta renderlo oggetto e il gioco è fatto.
Tutto questo, per di più, può
avvenire nella più totale buona fede. Guardando solo all’umano, guardando solo
al maschile, guardando solo al bianco occidentale si possono ignorare le più
elementari norme di tolleranza, si può dimenticare l’etica, si po’ credere di
compiere azioni rivoluzionarie, si può essere convinti di lavorare
concretamente per il cambiamento di questa società pur continuando a
rispettarne e ad incarnarne l’essenza, pur continuando a scandirne la
grammatica. In realtà, come appare ovvio, non si sta facendo altro che
perpetuarla rafforzandone le regole basilari.
Perché ciò che conta non è cosa
si mangia!
E’ curioso, infatti, notare come
il cosiddetto veganismo salutista, pur essendo vegan, segue esattamente la
stessa dinamica di chi, organizzando un incontro sul cibo giusto, festeggia
sulla prigionia, sulla sofferenza e sulla morte di qualcun altro. Ciò che
rimane immutato è lo specismo.
Anche nel caso del veganismo
salutista, infatti, l’altro da se’ (in questo caso la mucca, il maiale, la
gallina…) viene dimenticato, deprivato dal suo essere soggetto di una vita per
essere trasformato in oggetto/cibo che, solo per il fatto di far male alla
salute, dovrebbe essere evitato. In un caso l’oggetto/cibo deve essere trattato
con determinate metodologie per essere cibo giusto, nell’altro, invece, deve
essere evitato proprio come si eviterebbe una sostanza tossica. Il risultato
cambia, è chiaro, ma l’essenza della società specista, il suo perpetuarsi, il
suo inesorabile mantenersi come struttura che domina e dirige le nostre
esistenze, non viene scalfito neppure di una virgola. E come ovvia conseguenza,
in entrambi i casi, a livello globale, gli umani, gli animali e l’ambiente
continueranno ad essere dominati e sfruttati.
Nonostante le intenzioni,
nonostante il desiderio di cambiare le cose, si finisce per essere funzionali a
ciò che si vorrebbe cambiare.
La cosa più sconcertante di
questo paradosso, di questo impegno attivo verso il cambiamento che diviene
asservimento alle logiche del dominio, però, è un’altra, ed è legata
all’evidenza dei fatti, a quanto sia chiaro e inequivocabile che abbiamo di
fronte delle persone non umane, delle popolazioni di persone non umane. Di
quanto questo fatto sia stato dimostrato anche da quella stessa scienza che
regge e giustifica la nostra società specista. Dopo la Dichiarazione di
Cambridge del 2012 sulla coscienza, infatti, è stato sancito ufficialmente che
noi umani, insieme a tutti gli altri animali che imprigioniamo, segreghiamo,
sfruttiamo, ingrassiamo e uccidiamo, siamo dotati di coscienza, di quella
stessa coscienza che ci permette di essere consapevoli, di prendere decisioni.
In questo non c’è differenza tra noi e gli altri animali!
In realtà, anche in questo caso,
ritroviamo le stesse dinamiche del razzismo del sessismo, dell’omofobia. In
passato era pur sempre ovvio e visibile a tutti che le persone con la pelle
nera non erano quasi umani, che le donne non erano inferiori, meno
intelligenti, senz’anima, senza diritti e naturalmente votate alla
sottomissione. Oggi è quantomai evidente che l’omosessualità non è una malattia
mentale. Eppure occorreva crederlo, era indispensabile farlo per tenere in
piedi le società bastate sullo sfruttamento, le società fondate su un preciso
modello patriarcale. Il condizionamento, in realtà non ancora estinto del
tutto, era talmente forte che non bastava certo vedere con i propri occhi, che
non bastava certo dare ascolto alla propria empatia, al proprio senso
razionale. E non sarebbe bastata neppure la dichiarazione di qualche
scienziato. C’è voluto e ci vuole di più, molto di più!
Ma tornando al “cibo giusto” si
potrebbe anche affermare che non importa, che posso pretendere per me il cibo
buono, facile, il cibo che mi dà libertà dal sistema e gusto per il palato
anche infischiandomene dell’etica, anche se questo comporta il passar sopra
come un bulldozer su tutti i principi di libertà e di giustizia.
Eppure non è così, non è questo
il caso.
Perchè è sempre una molla etica
quella che spinge a desiderare cibo a chilometro zero, che spinge a mangiare
sul mater-b invece che sulla plastica, che spinge a porsi contro un sistema che
pretende la crescita infinita, che spinge a lottare contro le nocività. Ma,
nello stesso tempo, se questa molla etica non allarga i suoi orizzonti, se non
mira più in alto, se non prende in considerazione la radice che determina lo
sfruttamento e il dominio sarà sempre destinata a fallire, sarà sempre
destinata a perpetuare lo sfruttamento e la devastazione, i disastri ecologici
e le ingiustizie. Nessuna società libera, ecologica, etica, infatti, potrà mai
nascere o rinascere fondandosi sulla prigionia, sulla sofferenza e sullo
sfruttamento.
Troglodita Tribe